Barbara Baraldi continua la sua interessante opera di attualizzazione di Dylan Dog con l’inserimento di tematiche sociali vive e delicate. In quest’albo è il turno dei caregiver e dell’empatia che la cura del prossimo, che dipende in toto dalle cure di altri, può generare.
Se quindi la tematica alla base di questa storia potrebbe essere interessante, lo svolgimento, fra salti narrativi e facilonerie, risulta purtroppo tremendamente noioso alla lettura.
Per una tematica così particolare, affrontata nella sua declinazione orrorifica, era lecito aspettarsi un gioco sottile di sceneggiatura che imprimesse nel lettore uno straniamento, magari in bilico fra la comprensione e l’ansia claustrofobica… eppure, per tutta la narrazione, è molto difficile provare un vero senso di immedesimazione (ma anche un qualsiasi sentimento di angoscia, di tristezza) o comunque una qualsivoglia emozione che non sia un vago riflesso empatico.
Fatto salvo il finale dove, finalmente, si percepisce un minimo di emotività, il resto del racconto è un susseguirsi di episodi – spesso malamente collocati fra loro – che non hanno modo di costruire una struttura portante ma che piuttosto scardinano le poche idee valide, e magari utili, alla costruzione di uno stato d’animo.
La sceneggiatura, purtroppo, non riesce così in alcun modo a sviluppare un interesse che giustifichi la lettura di quest’opera.
L’elemento soprannaturale poi è meramente casuale e gratuito, le svolte narrative sono attuate mediante forzature poco plausibili, alcuni intramezzi sono completamente accidentali e, soprattutto, non aggiungono alcunché alla storia e non permettono in alcun modo di costruire un climax, neppure minimo.
Almeno c’è Corrado Roi che fa il suo dovere godendo di quelle due o tre scene (gratuite) che gli permettono di esprimere un po’ di sana follia alla sua solita maniera. Invero l’artista è bravo a rendere efficaci anche delle semplici passeggiate al parco e, da par suo, porta a casa il consueto ottimo risultato.
Nota a margine: come ormai di consueto la splendida cover di Raul e Gianluca Cestaro e il suggestivo titolo “Pioggia di sangue” non hanno nulla a che vedere con quanto poi avremo modo di trovare leggendo l’albo e, ovviamente, neppure con il film “Henry, pioggia di sangue“.
È questa ormai una prassi che può essere considerata una perplimente scelta stilistica.