Karesansui dylaniato
Che sia o meno un falso storico/botanico, il concetto di karesansui (traducibile con l’espressione “natura secca”) si ritiene comunemente associato a quello di “giardino zen”, il cui aspetto rigoroso e le linee minimali hanno lo scopo di riprodurre il risultato del lento lavorìo della Natura: un paradosso di “studiata casualità” che ha lo scopo di creare un locus di pace, relax, e meditazione.
In tempi e luoghi più vicini a noi, se riprodurre (leggi: copiare) Tiziano Sclavi è impossibile, tutt’altro discorso è cercare di emularlo. In quest’ottica la storia editoriale di Dylan Dog, da un certo punto in poi, è stata (quasi) unicamente il susseguirsi inevitabile di sforzi in tal senso, con le ormai proverbiali cinquanta sfumature di distici camicia rossa/giacca nera che spaziano dalla banale imitazione pedissequa, al volontario e manifesto allontanamento dall’opera originale. Se nel primo caso i nomi sono tanti e pure illustri, in special modo sulla serie regolare, nel secondo caso il prometeo di turno ha fatto sì che tutta una schiatta di epigoni ne venisse generata, benevolmente accolta e protetta entro i lidi del Color Fest.
Dal punto di vista puramente artistico il principio è tutt’altro che sbagliato, e qualche volta – come in questo caso – la sunnominata “studiata casualità” ha condotto a risultati che, almeno alla prima lettura, scaldano un pochino qualche cuore nostalgico, oltre a sussurrare all’orecchio delle generazioni più recenti cosa potesse voler dire trovarsi un Dylan Dog in edicola “back in the days”.
Attenzione: si è detto, non a caso, “alla prima lettura”. La pur ottima impalcatura dei tre racconti, infatti, mostra in breve il proprio senso di karesansui per tutta una serie di motivi.
Federico Rossi Edrighi ha già dimostrato, sempre sulle pagine del Color Fest, la capacità di giostrarsi efficacemente tra registri narrativi differenti; con “Rossa è la terra” accentua punte di lirismo che richiamano a tratti il compianto Lorenzo Bartoli, trascinando Dylan nel ricordo di un amore che, pur se capace di superare i confini imposti dalla morte terrena, è appunto destinato alla terra. Il cuore del nostro non può che metaforicamente soccombere ancora una volta sotto la lama di Fallen, e ritrovare se stesso nella comfort zone “Groucho + poltrona + clarinetto”.
Su tutto, ovviamente, imperano la personalità e il tratto di Francesco Dossena; senza dilungarsi sulle sue ascendenze stilistiche ed i meriti correlati – già opportunamente descritti da Recchioni in seconda di copertina – vale comunque la pena abbandonarsi al gioco delle similitudini con altri disegnatori dylaniati, nello specifico Corrado Roi (nel terzo ma soprattutto nel primo racconto, dove i richiami alle atmosfere di Xanador sono quasi un balsamo alla vista!); il racconto centrale presenta invece un tratto molto più personale, con un Dylan sofferto e sofferente, costretto suo malgrado a guardare oltre la complessità del tessuto della realtà, e il cui tormento interiore si riflette nel pallore e nella dinoccolata spigolosità della sua figura.
Per quante volte siano stati usati giudizi del tipo “l’autore XXX non va oltre il classico compitino, limitandosi a ricalcare l’ABC del personaggio tal dei tali”, stavolta non ci si può esimere dall’esprimere una moderata soddisfazione per il prodotto finale. È questo però, come detto, un Dylan meticolosamente studiato a tavolino, e reingegnerizzato (ovviamente con tutta la bravura del caso) al servizio dei disegni di una vera e propria guest star. Quanto però una natura secca può pretendere di mantenersi vitale da sola?
“Qualcosa di rosso” di Marco Nucci, Francesco Dossena e Francesco Segala
“Rossa è la terra” di Federico Rossi Edrighi e Francesco Dossena
“Rosso Dispera” di Diego Cajelli, Francesco Dossena e Sergio Algozzino
16x21cm, 96 pagine, colori, 6,90€
Sergio Bonelli editore, maggio 2023