K-11: quando 5 non è il numero perfetto

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Puntiamo subito all’elefante nella stanza: checché ne possa dire Igort, se una miniserie (almeno limitatamente allo scenario italico) mi viene a constare di 5 numeri, significa che qualcosa non va. Delle due l’una: o il piano originario prevedeva 4 uscite, poi artatamente diluite per motivi che esulano da questa disamina; o in alternativa il piano originario era di 6 numeri, che motivi paragonabili a quelli di prima hanno costretto a contrarre. 

Quale che sia la reale causa, la geometria della serie trae vantaggio dal numero dispari solo perché il terzo numero fa chiaramente da spartiacque tra un “prima” e un “dopo” le vicende del misterioso “progetto Zaroff”, intorno al quale si intrecciano le storie e i destini del trio di protagonisti (il soldato congedato Karl Ruslanovic Tikhonov, il capitano dell’esercito russo Gavril Yegorovic Voidanov, l’infermiera di stanza nella città chiusa di Krasnojarsk-11 Lora Kazimirova) e di alcuni comprimari. Per il resto, la narrazione è fortemente sbilanciata, il tono della vicenda manca di coerenza, il focus cambia in corso d’opera, le finalità stesse della narrazione vengono rimodellate attraverso una serie di scossoni che destabilizzano il lettore, lasciando in sospeso alcune sottotrame e rivelando al contempo i classici “buchi di sceneggiatura”.

La pandemia da Covid ha fornito una delle scuse più valide della storia al genere umano, applicabile in qualsiasi àmbito: in questo caso (lo si dice senza ironia) è lo stesso Matteo Casali a mettere le mani avanti chiamandola appunto in causa, e tentando di spiegare il perché e il percome i piani originari siano andati in buona parte a farsi benedire. In ogni caso la sensazione che ne deriva, al netto di più di una sessione di lettura, ricorda da vicino le dinamiche produttive di tantissimi prodotti per la TV, dove per cercare di salvare il salvabile si sono tentate ogni sorta di modifiche in corsa le quali, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno in realtà solo finito per accelerare la débâcle già annunciata – e qui gli esempi si sprecherebbero, per cui ci si astiene per pietà.

Concentrandoci sulla storia, Karl Ruslanovic Tikhonov è un veterano della II Guerra Mondiale, che ha perso sul campo fratello e uso della gamba sinistra: il suo senso di colpa nei confronti del congiunto (con il quale faceva squadra) lo porta a voler cercare una nuova porta d’ingresso nelle file dei combattenti, ma ovviamente senza successo; l’incontro con l’enigmatico capitano Voidanov lo spinge ad aderire ad un non meglio specificato progetto segreto, il cui scopo è dotare l’esercito russo di una nuova arma di difesa nei confronti dei nemici esterni che stanno facendo passi da gigante in quella che è la nascente era atomica. La sperimentazione cui Karl è sottoposto nella citata città chiusa di Krasnojarsk-11 si fonda per l’appunto sull’assunzione massiva di sostanze radioattive al fine di sviluppare una sorta di “immunità” agli effetti legati ad un’esplosione nucleare. Si tratta chiaramente di una pratica distruttiva, che però nel caso di Karl presenta un esito totalmente inaspettato, vale a dire quello di creare un essere in grado non tanto (o non solo) di assorbire radioattività, ma soprattutto di produrla.

Questo incipit, fortemente intriso di rimandi alle origini di Steve Rogers/Captain America, nonché tutta la ridda di eventi funesti che portano alla fuga il trio di protagonisti – con una Lora tra l’altro in attesa del “figlio della colpa” di Karl – e alla successiva ricerca di un posto sicuro dove stare, è inevitabilmente drogato da camionate di ideologia nazionalista e orgoglio identitario, su cui si posa, come cacio sui maccheroni, un diffuso senso di colpa che interessa in diversa maniera alcuni dei principali personaggi della vicenda. Se da una parte c’è infatti Karl, che vede nel progetto Zaroff un modo di espiare la sua incapacità di salvare suo fratello in quel di Stalingrado, dall’altra c’è Gavril, la cui famiglia è stata massacrata in guerra senza che lui potesse intervenire, e che vede in Karl e Lora (nonché nella loro futura prole) una sorta di surrogato di quel nucleo familiare che fu, accettando così di mettersi in gioco ben oltre il suo ruolo di capitano. A questi si aggiunge infine la spia americana Owen Franks, che instaura con Karl un rapporto molto delicato che lo porterà a vivere in continuo equilibrio tra la profferta di amicizia, la sottile paura nei confronti dei poteri di Karl e la ragion di stato in quello che è il periodo di inizio della cosiddetta “guerra fredda”.

È proprio l’agente Franks a costituire l’elemento narrativo più dissonante: il suo ingresso in scena sembra quasi quello di un personaggio pensato solamente per una breve comparsata, ma che invece arriva a guadagnare in corsa lo status di vera e propria “guest star”, assumendo in pratica un ruolo di nuovo mentore per Karl, analogamente a come Gavril aveva fatto prima di lui.

Nell’ultimo albo e mezzo, quindi, la serie subisce un profondo mutamento: il tono della vicenda cambia radicalmente, inserendosi su binari del tutto scollegati da quelli precedenti, ma soprattutto accelerando il ritmo e infilandosi in una sorta di parodia di The Americans. La fine del quarto numero, con la nascita del (primo) figlio di Karl e Lora, sarebbe stato un perfetto finale aperto, che avrebbe lasciato sì il lettore con non poca curiosità, ma che in ottica diegetica avrebbe segnato una coerente conclusione dell’arco narrativo portato avanti – sebbene non senza scossoni – fin dall’inizio. 

Come detto in apertura, però, la miniserie si concede un’ulteriore uscita, che narra del duo Karl&Owen impegnato su molteplici teatri nello scacchiere geopolitico internazionale dell’epoca (Italia inclusa) per azioni di spionaggio sotto l’egida della bandiera a stelle e strisce. Il tutto si conclude con un “nuovo” finale, aperto anch’esso, che potrebbe però anche leggersi come il finale del solo quinto numero, tanto questo è scollegato dal resto della storia – azzardando un paragone, un rimando è al terzo atto di Pearl Harbor dove, una volta mostrato praticamente in tempo reale il famigerato attacco condotto il 7 dicembre 1941 dalla Marina imperiale giapponese contro la Flotta del Pacifico degli Stati Uniti nell’arcipelago delle Hawaii, il film si trascina verso i titoli di coda rincorrendo riflessi narrativi del tutto pretestuosi per trovare una chiusa alle sottotrame lasciate in sospeso nel primo atto.

A compendio di ciò, due cose è opportuno rimarcare, seppur per motivi diversi: da un lato, la splash page che dà inizio all’intero racconto – il quale pertanto va avanti per circa quattro albi in forma di flashback – viene malamente ripresa nell’ultimo numero, e appare alquanto evidente che quanto sia stato narrato sia solo la classica “pezza a colori” rispetto al reale dietro le quinte che Casali aveva in mente, ma che evidentemente non ha avuto modo di orchestrare come previsto; dall’altro, la profondità del lavoro di documentazione del lavoro da parte dello stesso Casali è innegabile, e l’autore ben congegna le tempistiche in modo da far coincidere la distruzione della città chiusa di Krasnojarsk-11 da parte di Karl – evento di cui la Storia non verrà mai a conoscenza – con gli invece fin troppo conosciuti fatti del 6 e 9 di agosto del 1945 sui cieli di Hiroshima e Nagasaki.

Divagando allegramente, il nome completo del protagonista richiama in certo qual modo quello del condottiero romano – forse esistito, forse no – Gneo Marcio Coriolano che, essendosi fortemente opposto alla riduzione del prezzo del grano alla plebe nel 491 a.C., fu citato dai tribuni della plebe e scelse l’esilio volontario presso i Volsci. Ad Anzio fu ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci e accomunato a Coriolano da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma. Entrambi tramarono per spingere i Volsci a decidere per una nuova guerra contro Roma, e quando ciò avvenne il comando dell’esercito fu affidato a loro due.

Ritornando in carreggiata, e riprendendo il discorso circa il lavoro svolto in termini di documentazione e preparazione, le rubriche alla fine di ciascun albo ben dimostrano l’enorme sforzo compiuto anche sul versante grafico: tutta la fase di studio delle location, e più in generale di storyboarding, è stata condotta in maniera certosina, al fine di garantire il più ampio rispetto possibile alla realtà storica dell’epoca. Uno sforzo analogo è stato compiuto anche in fase di casting, dove un grosso aiuto è stato fornito da Michele Benevento (Lukas) per la caratterizzazione del trio di protagonisti. Accanto a ciò, Casali ha potuto in generale contare su un team di primissimo ordine, composto nell’ordine da: Davide Gianfelice (Northlanders, Daredevil), Luca Genovese (Beta, Orfani), Andrea Accardi (Chanbara), Francesco Francini (Morgan Lost, Mr. Evidence) e Stefano Landini (Hellblazer, Black Panther). A coronare il tutto, si aggiungono le evocative cover ad opera di Emiliano Mammucari (John Doe).

A tale proposito, la potenza espressiva di Gianfelice nel numero d’esordio pone già l’asticella molto in alto. Il suo tratto ruvido, corposo e concreto ben suggerisce della durezza degli scenari di guerra, così come conferisce alla città chiusa di Krasnojarsk-11 quel necessario senso spartano di desolazione che ha caratterizzato un’epoca, e il cui rigurgito ancora oggi è ben presente nella caratterizzazione urbanistica di paesi e città che ai tempi erano parte del cosiddetto “blocco comunista”.

I numeri successivi presentano un carattere maggiormente “sinottico”: da Genovese a Landini i volti dei personaggi, così come le atmosfere dentro e fuori i pur scarni edifici della città chiusa – e a seguire, ben al di là di essa – risultano infatti quasi come ingentiliti al confronto con l’albo iniziale. È come se la fotografia del pilot di una serie tv fosse stata fortemente ripensata nelle puntate successive in favore di atmosfere più convenzionali, meno spigolose, forse meno crude – ma di certo anche meno efficaci. Le scene d’azione, con particolare riferimento al citato terzo numero, non sono prive in ogni caso di spessore e ben comunicano l’idea della potenza distruttrice che promana da Karl, grazie anche ad un sapiente lavoro sul piano dei colori e in particolare degli “effetti speciali” – ad opera di Stefania Aquaro, Luca Saponti, Alessia Pastorello e Fabiana Mascolo.

K-11 fa parte della prima cucciolata di titoli dell’allora neonata etichetta editoriale Audace di Sergio Bonelli Editore, la quale tra l’altro ricevette il premio Gran Guinigi per la migliore iniziativa editoriale in quel di Lucca 2019. Lo sforzo produttivo si percepisce chiaramente, per i nomi coinvolti, così come per il citato lavoro di produzione, e ovviamente anche per quanto concerne il tipo di storia che Casali ha voluto raccontare, approfittando della possibilità di spaziare senza particolari limiti predefiniti. 

È quasi come un’evoluzione della precedente iniziativa “Le Storie” che aveva inizialmente puntato su un carattere antologico per lanciare quanto più possibile a briglia sciolta la fantasia degli autori. È quindi ovviamente un peccato che i piani originari – come quelli di chiunque, a livello globale – siano stati modificati per cause di forza maggiore: nondimeno quel che rimane è un forte senso di brodo eccessivamente allungato, nel quale si è cercato di far convergere in un modo o nell’altro tutto quello che era stato comunque prodotto, a scapito però di una consistency finale che risulta fortemente rimaneggiata. 

Rimane – ripetiamo – il plauso per l’iniziativa in sé, che in ogni caso si pone nel solco della casa editrice, ossia la ricerca di quell’affannoso quanto evanescente equilibrio tra “sperimentale” e “popolare”, “autoriale” e “commerciale”, ma che in fin della fiera è solo la necessità di raccontare storie, che sono il motore di quella socialitas che definisce l’Uomo nella sua più intima essenza.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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