Dopo aver narrato, rivisitandole con la magia, le origini del blues (Le rêve de Meteor Slim, 2008) e poi la pioneristica ricerca musicologica condotta all’inizio degli anni Trenta dai Lomax padre e figlio, John e Allan, che ne salvarono nomi e parole dei protagonisti per lo più rinchiusi in carcere (Lomax. Ricercatori di folk songs, 2011, il solo tradotto in Italia l’anno successivo da Coconino Press) e gli anni parigini d’un fanciullo chiamato Amadeus (Mozart à Paris, 2018), Frantz Duchazeau continua la sua personale esplorazione della musica tornando al primo amore. Lo fa con una lunga e corposa storia (230 pagine), lenta come il vagabondare senza meta apparente – ma la ricerca di un padre non lo è mai – nella quale condensa gli ultimi giorni della breve vita (27 anni) di Robert Johnson, chitarrista “mitico” nel senso di essere oramai investito di un’aura mitica: si disse che il diavolo, incontrato al crocicchio d’un assolato Sud e della sua esistenza, gli insegnò a suonare come nessuno prima di lui… Johnson fu l’inventore del blues: una solo foto esistente, una dozzina di canzoni – tra cui Sweet Home Chicago – e un’eredità musicale che continua a irrigare tutta la musica nata nel Novecento.
Se è d’obbligo il raffronto con un’altra biografia a fumetti, pubblicata dieci anni fa e sempre dedicata a Robert Johnson – Love in vain. Robert Johnson 1911-1938 (dal titolo di un’altra sua celeberrima canzone, mai tradotto in italiano) di Mezzo ai disegni e Jean-Michel Dupont alla sceneggiatura –, in realtà tutto distingue le due produzioni: il formato, oblungo come le strisce giornaliere anni Trenta per Love in Vain, quadrato come un vinile per Les derniers jours de Robert Johnson; il segno, di un bianco e nero privo di mezze tinte da sembrare un’incisione su legno per Mezzo, al carboncino ricco di sfumature per Duchazeau; alla chiusa finale, col famigerato Free Concert di Altamont del 6 dicembre 1969, la cui violenza e le cui morti segnarono simbolicamente la fine dell’utopia hyppie, e il cui chiaro riferimento a Sympathy for the Devil dei Rolling Stones – organizzatori dell’evento – rivela la voce narrante per Dupont, contrapposto all’omaggio postumo e all’entrata nella modernità con il fonografo acceso sul palco del Carnegie Hall di New York durante il concerto del 23 dicembre 1938 (intitolato From Spirituals to Swing) che doveva accogliere Roberto Johnson morto quattro mesi prima, per Duchazeau.
Ma al di là delle scelte grafiche, in fondo musicalmente statiche per entrambi – e riproposte da Mezzo e Dupont, ma questa volta anch’essi in un formato quadrato come un vinile, per il primo volume di un dittico consacrato a Jimi Hendrix (Kiss the Sky. Jimi Hendrix 1942-1970, 2022, nemmeno questo tradotto in italiano: il secondo volume, dedicato al successo e alla fama, è già annunciato nello stesso formato ma con una trama cromatica psichedelica) –, Duchazeau si distingue dai predecessori per il ritmo narrativo che la più ampia foliazione gli permette, fatta di incontri, ricordi e occasioni che non portano da nessuna parte, se non al desiderio di scomparire; per l’orizzonte naturale e proto-urbano, ancora agricolo, in cui si muovono Robert Johnson e chi lo cerca, i talent-scouts newyorkesi percepiti dai Sudisti come estranei; e soprattutto per il registro linguistico, grazie al quale ci troviamo immersi nel quotidiano disperato degli afroamericani quando ancora non si chiamavano così.
È nei dialoghi minimalisti – essenziali e per questo tragici – e negli ampi sprazzi paesaggistici dal tratto caratterizzato da assolate sfumature capaci di rendere polverose le strade, possenti gli alberi e misere le bicocche riempite di solitudine, che trasuda la musica di Duchazeau: fino alla battuta di un operaio al suo boss, epitome del blues e di tutta la breve vita di Robert Johnson, scevra di maledizioni tranne quella di essere un Nero nell’America razzista d’inizio secolo. «Capo, ma lo sa cosa significa essere un Nero di sabato sera?»