Kazuhiro Fujita.
Questo nome suscita sempre una lacrimuccia nei cultori del manga di una certa generazione. Diciamocelo, i veri cultori del manga!
Mica questi giovinastri arrivati dopo che si sono trovati decine e decine di serie tra cui scegliere i loro Onepieci, i loro Bokuhiro e tutte quelle serie di ragazzotti lì solo effetti speciali, cura grafica e, signora mia, adesso lei vede torri di milioni di copie vendute ma qui una volta era tutto deserto atomico di Ken il Guerriero.
No, Kazuhiro Fujita lo abbiamo conosciuto noi che in edicola potevamo scegliere tra due riviste e quattro speciali, spesso nascosti e stropicciati tra uno Skorpio e un Gin Fizz (noncheiosapessicosaeraGinFizzehmelospiegavamiocugino), che compravi facendo la cresta sui soldi per la merenda, leggevi avidamente quattro volte di fila e poi a letto che il giorno dopo ci si svegliava al suono della sirena che annunciava il decollo del Trider G7.
Insomma, noi, generazione di vecchiacci dai ricordi leggermente romanzati, di Kazuhiro Fujita e del suo potente (non trovo altro aggettivo con cui definirlo) Ushio e Tora, ci ricordiamo molto bene.

Concluso con il botto (che botto!) aspettammo qualche anno chiedendoci come fosse possibile non avere altre opere di un mangaka tanto appassionato da superare di pura potenza la sua, mi si perdoni la crudezza, ignoranza grafica. E forse la risposta era in questo. Il mercato intorno a noi stava cambiando, la dove c’era il deserto atomico eccetera, eccetera, ora cominciavano ad arrivare a pioggia nuovi manga non più recuperati “di seconda mano” dalle rivendite del mercato americano, ma andando a contrattare direttamente con il Giappone.
Il pubblico intanto si faceva più esigente, il manga d’azione che aveva la sua forza nell’impatto cominciava ad essere sempre più affiancato da generi più estetizzanti o a diventare esteta esso stesso: se prima il tratto curato di Masamune Shirow era un’eccezione, ora l’offerta spaziava dall’estetica liberty delle Clamp fino alla cura parossistica di Hiroaki Samura, sperimentando nel frattempo l’espressionismo iconoclasta di Shinichi Hiromoto.
Nomi che erano stati sulla bocca di tutti come Masaomi Kanzaki (Xenon), Yoshihisa Tagami (Grey e Horobi), Hiroshi Takashige e Ryōji Minagawa (Spriggan) vengono un po’ travolti da questa nuova ondata colpevoli, forse, di non avere un tratto sufficientemente accattivante (o, nel caso del primo, di averlo perso) nonostante le loro opere più acclamate restino testimoni dell’energia della “New Wave” del manga.
Ma sto divagando: com’è come non è, anni dopo la conclusione di Ushio e Tora, la ormai scomparsa (almeno per quanto riguarda l’editoria fumettistica) Play Press Publishing dà alle stampe Karakuri Circus (che può essere tradotto in “Il Circo delle Marionette”) e i lettori affezionati ci ritrovano immediatamente il “loro” Kazuhiro Fujita, il suo tratto approssimativo, le sue anatomie spesso sbagliate e frettolose ed il suo intuito, clamoroso, per l’azione disegnata.

Trovano anche un discreto cambio di prospettiva. Rispetto ad Ushio e Tora, che aveva come protagonista il classico normalestudentegiapponese, in quest’opera abbiamo sì un giovanissimo ragazzo, Masaru, che si trova però a dividere il palcoscenico con due maggiorenni (da poco), e che maggiorenni!
Da una parte abbiamo Narumi Kato, ventenne dalle grandi capacità di artista marziale ed una certa tendenza all’arroganza fortunatamente temperata da una brutta sfortuna: una rara malattia, la Zonapha, che gli causa pesantissimi e potenzialmente letali attacchi d’asma e che può essere attenuata in un solo modo, facendo ridere gli altri. Una bella cura di umiltà per un ragazzone altero ed aggressivo che si trova costretto a fare il clown (non riuscendoci benissimo) per sopravvivere.
Dall’altra Shirogane, una bellezza albina esile e determinata, artista circense perfetta in grado di manovrare la marionetta da combattimento Arlequin, unico lascito del nonno di Masaru ed unica difesa di quest’ultimo verso le mire dei parenti intenzionati ad ottenere la colossale eredità di cui è unico beneficiario.
Insomma, è evidente come agli esordi il classico fruitore di manga shonen si trovi piuttosto spiazzato: due adulti (almeno per lo standard shonen) protagonisti carismatici ed il supposto “fulcro di immedesimazione” derubricato ad un ragazzino insicuro e frignone.

Certo, c’è da dire che Fujita non fa parte della categoria di autori shonen per cui gli adulti o è meglio che non ci siano o sarebbe opportuno lasciarli sullo sfondo a far da antagonisti o macchiette. Ushio e Tora oltre ad educare i ragazzi all’importanza di prendersi le proprie responsabilità aveva anche introdotto parecchi adulti, a partire dal padre di Ushio, in grado di guidare il protagonista o fornirgli esempi in un modo o nell’altro, quasi mai solo per contrapposizione.
C’è infine da dire che è pur sempre Kazuhiro Fujita a scrivere le storie che disegna e lo dimostra facendo crescere il piangina/vittima designata Masaru fino allo status di “eroe” nell’arco di un primo arco narrativo dal ritmo ferreo e preciso.

Dal punto di vista grafico poi c’è poco da eccepire… cioè, come si è intuito (e visto), c’è un po’ da eccepire sulle continue sviste di Fujita nella gestione di proporzioni, anatomie, pulizia della tavola, espressività, eccetera, eccetera…
Ma ogni singolo, a volte macroscopico, errore viene completamente dimenticato, quasi si fosse stati “sparaflashati”, nel momento in cui Fujita azzecca una sequenza madre e ti investe con la potenza dinamica che solo il manga d’azione di prima categoria riesce a sprigionare.

Arrivando a concludere, ci si chiederebbe perchè, anche in questo caso, ho optato per inserire questo manga nella categoria Dallo Scaffale e non Dal Forziere.
Questo dipende da due fattori. Il primo è la discontinuità della pubblicazione italiana, funestata evidentemente dalla sfortuna: rimasto abbandonato a seguito della crisi della Play Press, ci sono voluti anni prima che la GOEN lo riprendesse in mano per ripubblicarlo, anni in cui il pubblico e l’offerta sono ancora cambiati, retrocedendo ulteriormente nelle classifiche un’opera che, davvero, avrebbe meritato di più. La, diciamo così, scarsa puntualità della GOEN nel gestire le sue uscite non ha certamente migliorato la situazione.
“Discontinuità” è però anche la parola chiave del secondo fattore. Come detto il primo arco narrativo è praticamente perfetto nel ritmo e nell’espressione, un crescendo senza fiato che arriva ad un climax con colpo di scena: la separazione dei protagonisti.
A questo arco ne segue un secondo ancora estremamente valido che vede Masaru e Shirogane protagonisti. Fujita poi sposta ancora i riflettori, una scelta per certi versi coraggiosa che fa pensare ad un’opera corale ma, forse per i lunghi tempi di realizzazione, forse per un minimo di stanchezza, sembra perdere il controllo dell’opera ed il lettore si trova un po’ confuso e con il sospetto di aver smarrito quello che era il nucleo narrativo originale.
Paradossalmente, mentre per Tsukihime la mancata promozione era dovuta al non aver visto raccontato tutto quello che si poteva raccontare, in questo caso si può dire che l’aver voluto raccontare troppo ha, probabilmente, zavorrato un’opera che nelle sue prime battute era un vero gioiello.