La favola con la roncola
UT Fabula narraretur, verba imaginibus convertenda erat, et vicissim. Come a dire che una favola generalmente nasce da parole (la tradizione orale) che possono essere tradotte in forma grafica, ma non è detto che non possa accadere il contrario. Questo è ciò che sta alla base di UT, figlio impreciso di Roi e Barbato, che in questa mini-serie si sono più volte scambiati i ruoli genitoriali. Anzi, a dirla tutta UT sembrerebbe più il frutto di una “neanigenesi” (tentativo di condurre al maschile il termine “partenogenesi”) da parte di Corrado Roi, che Paola Barbato si è poi assunta l’onere di svezzare e portare per mano se non fino all’età adulta, almeno fino all’adolescenza.

Post-umano incappucciato figlio di un post-umano mondo, cacciatore di insetti e roncolatore seriale, UT è la legatura di portamento sotto la quale si sviluppa un melisma in uno spartito senza chiave: collante infatti suo malgrado di una serie di eventi che si dipanano da quando Iranon “l’originale” esce dalla mastaba in cui era rinchiuso, percorre il cammino anamorfico delle 564 tavole dell’opera marcando puntualmente l’ “hic et nunc” con una serie di epiteti semplici quanto intensi, ma soprattutto perseguendo lo scopo di ottenere la vita eterna per il suo gatto Leopoldo. Tra l’altro, la scritta “chatis” che ogni tanto compare lungo le “vie” della conurbazione in cui UT si muove non è altro che il plurale del nome di una sottospecie di gatto tigre (Leopardus pardalis mitis) nativo di Argentina e Paraguay.
Responsabilità genitoriale si diceva quindi da dividere tra i due autori, che nella loro serie di “editoriali doppi” hanno cercato – ognuno a suo modo – di stabilire un rapporto empatico con il lettore, fornendo al contempo elementi preziosi per comprendere meglio il dipanarsi della storia. I toni più aulici e ricercati usati di Roi echeggiano costantemente al suo essere il creatore, il portatore dell’idea iniziale; dalle parole della Barbato emergono invece le diverse facies del suo essere scrittrice, donna, e mamma: tre filtri attraverso i quali l’idea iniziale è stata di volta in volta pensata e rimasticata, ma mai volutamente padroneggiata per evitare di perderne il senso iniziale. Un senso che purtuttavia si impegna a sfuggire, e per il quale le citate “istruzioni per l’uso” forniscono un aiuto destinato ad evaporare a volte con molta, troppa facilità. Per lo stesso motivo l’uso del termine “trama” va pensato più di una volta, prima di poterlo utilizzare con cognizione di causa.
Mille e una sono in realtà le tavole attraverso le quali la “trama” assume forma ora solida, ora gassosa, il più delle volte liquida; i testi in questo danno la sensazione di agire come tentativo di arginare questo continuo cambiamento di stato. Intendiamoci: Roi come si vede qui non lo si è forse visto mai fino ad ora, e leggere uno di seguito all’altro i 6 numeri dell’opera complessiva è come fare un viaggio accelerato lungo i binari della sua maturità artistica e stilistica. Il suo talento prorompe sbrigliato, dai nasi e le parole crociate alle pareti, alle architetture “impossibili” dei palazzi in cui abita Yersinia, passando attraverso il carattere intimo e spartano di scenari urbani presi quasi di peso dall’immaginario del “Mondo piccolo” di Guareschi (e forse proprio per questo inspiegabilmente affascinanti), fino a risalire alla non-dimensionalità architettonica della “Casa”, entro la quale UT prende e riprende coscienza del suo essere fiaba dentro una fiaba, matrioska indivisa intorno alla quale si affollano i concetti di “copie” e “originali”, che alla fine mettono in luce il significato celato dietro all’essenza di Iv, ma soprattutto di Iranon.

Fa però fatica il lettore a tenere insieme i diversi livelli di lettura: pur nell’intuizione che i punti di contatto tra di essi aumenteranno con il volgere della storia verso uno scenario più coeso, in realtà anche ad una lettura successiva il diffuso “stato liquido” della materia trattata mina non poco la comprensione d’insieme. Al di là di alcuni passaggi di sceneggiatura che davvero sono poco chiari, quello che emerge con forza è una sorta di cesura alla fine del terzo numero, spartiacque tra primo e secondo atto che imprime però un eccessivo cambio di velocità (tant’è vero che – come si diceva poc’anzi – è spesso solo grazie all’ausilio degli editoriali iniziali che alcuni punti della trama vengono resi realmente noti, più che essere solamente spiegati); ancora, il nome di “Atem” compare quasi ex abrupto, ed il tentativo di twist nell’associarlo prima al “fossile” Iranon e poi ad UT stesso (come tra l’altro un lettore un minimo più esperto si aspetterebbe) fallisce nel più generale tentativo di rendere più chiaro il legame tra le case, gli architetti, l’origine ed il ruolo di Iranon, ed il mistero legato alla figura di Iv e delle sue copie. A latere, sembrerebbe quasi che i nomi Atem ed Iv vadano a richiamare gli archetipi di Adamo ed Eva – ed inserendo così nel calderone un altro classico tòpos che attraversa la letteratura fantastica da Wells fino a “Lost” o “Evangelion”, ossia quello dei personaggi destinati in fin di vicenda a diventare progenitori di un nuovo mondo.

Solo, invece, risorto a se stesso dalla sua personale salita al Golgota, UT con la sua crociata dell’ “hic et nunc” costringe gli architetti delle “case” a svelare al lettore il centro della trama. Come più volte ripetuto dagli autori, quello di UT è un mondo (o almeno una porzione di esso) in cui il pensiero è soggiaciuto all’istinto: in questo quindi va interpretato il detto latino iniziale, che suggerisce lo sforzo compiuto di ribaltare la classica gerarchia dei ruoli tra testi e disegni, comunque la si voglia vedere. Roi compare come soggettista, ma il suo “soggetto” è da intendersi non tanto come un canonico scritto di massima che poi andrà articolato nel connubio tra testo e disegni, quanto come una “grafica di massima” da dotare del dono della parola. Le “parole” scritte dalla Barbato (la cosiddetta “sceneggiatura”, come da tamburino in seconda di copertina) sono quindi quell’apporto di energia fornito sotto forma di calore che regola il passaggio di stato della materia dal solido al gassoso, e nello specifico calibrato per mantenere una forma liquida predominante. Quest’ultima è infatti composta al 100% di memoria, e pur se movimentata tende a tornare alla forma del suo contenitore originale. La movimentazione del liquido può quindi paragonarsi in certa qual misura a quel pensiero che soggiace all’istinto solo all’apparenza, ma che in realtà è la causa dell’esistenza dell’istinto stesso: gli individui che circondano UT sono prodotti dalle case, e le case sono il risultato del pensiero degli architetti, espressione della loro volontà di evolversi dallo status umano. Di contro, il tessuto grafico dell’opera ha lo scopo a sua volta di convogliare quell’apporto di energia di cui si diceva, allo scopo di impedire la sublimazione e/o il brinamento della materia narrativa: un’altra prospettiva del conflitto tra pensiero ed istinto, che andava pertanto combattuto già in fase di concepimento dei testi, così che tale idea potesse rendersi più chiara (e comunicabile) quando calata sulla materia grafica.
La difficoltà di UT risiede fondamentalmente in questo, e dispiace osservare come tale sfida non sia sempre del tutto riuscita: rimane comunque un tentativo originale, quantomeno dalle parti di via Buonarroti, e la valutazione del lettore deve tenerne conto ampiamente – pur senza per questo motivo farsene condizionare in sede di lettura. Meno originale è il già citato ricorso alla tecnica dei molteplici livelli di lettura, che ad esempio vede in “Watchmen” una delle sue massime espressioni. Come già accennato, la sostanza serica di cui si compone la trama si rivela in più momenti inadatta a sopportare tale intreccio nel suo ordito. UT è dunque un’opera che richiede partecipazione ed impegno al lettore, così come qualsiasi fiaba racchiude sempre qualcosa in più di quanto esprime ad una prima lettura, e svela il suo messaggio solo a chi accetta la sfida di una fruizione più matura. La fiaba però, a differenza di UT, ha spesso una trama superficiale “semplice”, ed è proprio questo a conferirle quella grammatura necessaria a reggere il peso del dono nascosto che essa vuole offrire.

Sì, rimane la questione della “serie-evento”. Ogni cosa in certo qual modo “e-viene”, in quanto accade partendo da determinate premesse. Pur conformandoci all’absit iniuria verbis, le dinamiche di marketing che hanno accompagnato l’uscita del primo numero non hanno mancato di suscitare curiosità e stupore, almeno in chi rimane ancorato ad una visione tutto sommato ancora “artigiana” della Bonelli. Il coraggio della Casa editrice milanese di affrontare il mercato con una vasta gamma di prodotti è sempre stato sotto gli occhi di tutti, ma è indubbio che la peculiarità della mini-serie in questione abbia fatto alzare più di un sopracciglio. È una fiaba? Un esperimento uscito fuori dal controllo? Il tentativo di dotare di parola un’immagine composita nata dalla fantasia di un giovane, e da questi consolidata e convoluta lungo la sua carriera artistica? O un’altra spiegazione ancora, più semplice o magari più complessa? Si potrebbe chiosare il tutto dicendo “UT è solo UT”, ma chiaramente l’aforisma non ha in sè la forza di una giustificazione, anzi laconicamente si limita a comunicare un senso di “singolarità” per la quale, come accade in un buco nero, le leggi della narrazione classica non si applicano (o almeno non nel modo comunemente inteso). Se però è vero che – come recentemente dichiarato – da un buco nero riescono comunque a sfuggire alcuni brandelli di contenuto informazionale, ci si può appoggiare a questa scoperta per supporre quantomeno che “alla fine un senso pur deve esserci”. È probabile tuttavia che questo andrà ricercato in una serie più lunga di riletture e ripensamenti, tentando di risalire all’ispirazione degli autori come lungo una scala musicale, il cui carattere principale viene determinato dalle alterazioni poste in chiave. La struttura stessa di questo scritto si è cimentata in questo tentativo, come a dire: UT musica mentibus manifestaretur, scalae ad coelorum sidera ascendendae erant.