“Anni senza fine” (“City”)
di Clifford D. Simak

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Come spiegavo nel mio articolo sull’Eternauta, con l’Oscar Mondadori Anni senza fine avevo avuto immediatamente la sensazione di aver scoperto un capolavoro: il declino della civiltà umana e l’avvento di quella canina, il mistero dei Mutanti e la figura centrale del robot Jenkins mi avevano affascinato oltre ogni dire. Quando, lavorando a Grenoble a fine anni Ottanta, lessi la versione francese intitolata Demain les chiens… rimasi di stucco: alcuni passaggi mi suonavano “nuovi” e, soprattutto, il quinto racconto era notevolmente più lungo di quello che conoscevo. Capii così che quell’Oscar che avevo tanto amato presentava (ayeeeee) una versione “sforbiciata”, come spesso accadeva all’epoca… e quindi, negli anni successivi, mi procurai altre versioni pubblicate da altri editori tra cui, soprattutto, due diverse versioni originali – la seconda conteneva il nono e conclusivo racconto che Simak aggiunse all’inizio degli anni Settanta, in occasione di un volume commemorativo dedicato al “padre della fantascienza” John W. Campbell (in realtà, lo stesso Simak riteneva che City avrebbe dovuto concludersi con l’ottavo racconto, affermando che “aveva una sua malinconica nota definitiva che non avrei voluto toccare”). Ancora oggi, di quando in quando, rileggo City e ancora oggi – pur conoscendo alcuni passaggi praticamente a memoria – mi sorprendo a scoprire qualche piccolo dettaglio che mi entusiasma e mi fa tornare indietro nel tempo, a quando lo lessi per la prima volta restandone folgorato. Ma non riuscendo ad esprimere appieno i motivi di questa mia passione, lascio volentieri la parola all’amico (e altrettanto appassionato) Vincenzo Oliva, prendendo in prestito le parole che, a suo tempo, aveva dedicato a questo capolavoro e sottoscrivendole in toto – ad eccezione di una sfumatura contenuta nella sua domanda iniziale: perché, per me, City è il libro più bello che io abbia mai letto, non solo tra quelli di fantascienza.

Qual è il più bel libro di fantascienza mai scritto, e perché è proprio City? In realtà le classifiche non hanno quasi mai senso, e se mai dovessi indicare il più bel libro di fantascienza avrei probabilmente bisogno di più di cento titoli. Magari molto, davvero MOLTO più di cento. Tuttavia City – o Anni senza fine, come venne inizialmente intitolato in traduzione italiana – è veramente un’opera straordinaria, e non solo nell’àmbito del (non) genere fantascientifico. La bellezza, non meno dell’importanza, dei racconti che compongono la serie di Simak è data non solo dalla storia in sé, che l’autore narra con una maestria affabulatoria pari al nitore della semplicità con cui il racconto emoziona nel profondo, ma anche dal valore esemplare della vicenda narrata. Credo infatti che nessun altro libro rappresenti meglio del capolavoro simakiano cosa la fantascienza effettivamente sia. I toni lirici, elegiaci della saga struggente del tramonto e della scomparsa dell’umanità dal pianeta natale come vengono tramandati nei miti dei cani senzienti che hanno ereditato la Terra ne esemplificano il senso più profondo e autentico, insieme all’argomentare riflessivo dell’autore che, attraverso la mitologia dei cani, (si) interroga sulla natura, la storia, le azioni della nostra specie, sul senso della nostra vita. La fantascienza è una letteratura umanistica: al centro delle sue narrazioni e riflessioni vi è l’uomo, la sua storia, la sua evoluzione, le possibili traiettorie future o lo stato presente delle cose analizzato in ottica speculativa. La fantascienza è narrativa speculativa: astronavi, robot, pianeti esotici, alieni bizzarri sono tutti artifici, utili ma non necessari e tantomeno indispensabili, della lente proiettiva – evolutiva – di indagine su noi stessi che essa rappresenta. E non a caso, il principale attore sulla scena di City è un robot, Jenkins, una delle figure più notevoli nella storia del nostro (non) genere. Jenkins, custode della memoria dell’Uomo, guida dei cani, osservatore delle ere planetarie che si susseguono, consumando una dopo l’altra le specie che vanno e vengono; Jenkins che, in ultima analisi, è la vera e propria coscienza della Terra.

Marco Gremignai

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