Nel 1975 Sergio Bonelli aggiunse alla sua fucina di idee e avventure quello che per me divenne un tassello fondamentale della mia crescita, non solo come lettore di fumetti e di storie di ogni genere, ma per definire una più completa visione e un modello ideale della vita e degli esseri umani: Mister No. La consapevolezza, naturalmente, è qualcosa che si acquisisce nel tempo, sovente nel lungo periodo, e quel che il bambino undicenne vide allora fu soltanto che c’era un nuovo eroe “in città”, che quelle storie erano diverse da qualunque cosa a fumetti avesse letto fino ad allora, ed erano altrettanto appassionanti dei racconti di Tex e di Zagor. Il fatto che fosse il primo di cui potei seguire gli albi sin dal numero uno, in diretta, me lo rese ulteriormente speciale.
Innamorarsi di quel personaggio, così lontano dai prodi campioni decisamente più canonici sin lì conosciuti, fu immediato: Sergio Bonelli, nella sua incarnazione autoriale di Guido Nolitta andò decisamente oltre il proprio modello zagoriano dell’eroe-martire che accetta il fardello della colpa e la riscatta con una vita di sacrificio e testimonianza; nel tempo egli getterà le basi di una figura né eroica né antieroica che delineerà sempre meglio: un vagabondo, ingenuo, ribelle e pieno di vitalità; un underdog al quale, semplicemente, càpitano cose.
Altrettanto semplicemente, quello sbalestrato randagio aveva un cuore grande così, come pure la predisposizione genetica a farsi carico di ogni causa perduta, e questo marcava la differenza fondamentale con i tanti personaggi problematici, “neri”, sporchi e sporcati dalla vita – infine banali per essere troppi e troppo simili tra loro: quel contrasto evidente eppure sfumato, talvolta sottotraccia, tra gli aspetti più solari e quelli più umbratili del personaggio, rendeva infatti Mister No più difficile da impostare e successivamente caratterizzare con coerenza rispetto a una tipologia di personaggi tormentati e sfaccettati ma in fondo semplici, per i quali fosse necessario trovare una Grande Ferita che ne aveva marchiato a fuoco l’esistenza e che poi si scrivono quasi da sé (qui non mi riferisco ai pochi ritratti di disperati autentici delineati da grandi autori come Cornell Woolrich, Horace McCoy o Fredric Brown, ma a quegli innumerevoli personaggi “moderni” che da decenni intasano librerie e fumetterie). Lui, Jerry Drake alias Mister No, deve necessariamente vivere sul filo sottile che corre tra un sottofondo di ribellismo istintivo e quasi sprovveduto, pericolosamente incline al nichilismo, e quel gran cuore che gli impedisce, anche a forza, con violenza, di abbandonarvisi. E riuscire a farglielo fare non è così immediato.
L’editore Sergio Bonelli e i suoi impegni hanno messo di frequente i bastoni tra le ruote all’autore Guido Nolitta, e non ci volle molto perché vi fosse bisogno di altre penne su Mister No (una prima mano diversa dal suo creatore arriva con il numero 20). Il personaggio non era facile da inquadrare, come detto, e dunque non furono sempre rose e fiori, anzi furono spesso corone di spine. Con il tempo, saranno due gli autori che, nella diversità del loro approccio alla scrittura, con le loro peculiarità e idiosincrasie, e nella distanza da Bonelli/Nolitta, sapranno comunque cogliere, se non il carattere, le principali caratteristiche del personaggio: Alfredo Castelli dapprima, e poi anche Tiziano Sclavi, al loro meglio seppero scrivere racconti di Mister No altrettanto memorabili di quelli di Sergio.
Come lettore, e non solo come lettore dell’incredibilmente vasto e multiforme universo bonelliano, ad Alfredo devo probabilmente più che a ogni altro inventore di quel nutrimento fondamentale dello spirito che sono le grandi storie narrative, quelle finestre sì di fantasia ma che, venendo da uomini in carne e ossa come noi, sanno mostrarci visioni e visuali di vita e umanità che la nostra finitezza individuale non potrebbe sperimentare con altrettanta ampiezza: nelle mani di scrittori veri come furono Bonelli e Castelli, queste non sono solo storielline ma immagini autentiche di vita.
Gli ostaggi si dipanò per cinque mesi, coprendo quasi per intero la seconda metà del 1982. La storia seguì un’altra di Castelli, tra le più bizzarre del personaggio – e per questo anche tra quelle che più restano nella memoria, dove lettori abbastanza attoniti avevano assistito al mancato matrimonio di Jerry. Questa successiva sarà anche più memorabile: anche e soprattutto perché tra le più intense di Alfredo Castelli e del personaggio.
La storia dovette probabilmente essere scritta in concomitanza con le fasi finali della progettazione di Martin Mystère, che aveva iniziato pochi mesi prima a essere pubblicato e diverrà poi l’impegno della vita di Castelli (e che, per molti versi, alla lunga finirà per inaridirlo). È una storia di topi – anzi di topastri – e di uomini, nella quale gli uomini sono pochi – anzi pochissimi. Quando scrive Gli ostaggi, Castelli sta attraversando un periodo particolarmente felice sotto il profilo creativo, e lo si apprezza nel modo in cui fa uso di ogni possibile registro stilistico ed emotivo, amalgamandone armoniosamente i contrasti. Il lungo racconto – in realtà un vero e proprio romanzo, per ampiezza e ricchezza narrative – alterna dunque la commedia brillante, nella quale l’autore profonde il meglio della sua ironia, con il racconto introspettivo e lo scontro psicologico dei caratteri (efficaci, quantunque un po’ tagliati con l’accetta); incalza il lettore con un’architettura thrilling, alternata tra il racconto nel presente – la rapina in banca con tanto degli ostaggi del titolo – e la storia narrata in flashback, vero e proprio primo tempo di quanto ci viene narrato; offre ai giovani adolescenti e preadolescenti, cui allora un grande fumetto popolare si rivolgeva principalmente, un contrasto etico tra ciò che è bene e ciò che è male, catturandoli con la magia di un racconto emozionalmente duro e narrativamente complesso; crea una galleria di personaggi che lasciano il segno, ai quali conferisce umano spessore e realismo a volte in pochissime battute, e che apportano naturalezza e veridicità a quel confronto e scontro di caratteri cui accennavo. È la storia di un contrasto esistenziale irriducibile, perché incompatibili le due visioni e traiettorie di vita dei principali protagonisti, inevitabilmente destinati a non incontrarsi e anzi a confliggere sul piano dei loro valori identitari di esseri umani: Ratso e Mister No.
Con la figura di Michael Morgan III, detto Ratso (in italiano, appunto, “topastro”), Alfredo Castelli ha dato vita a uno dei suoi personaggi più riusciti e interessanti, e nell’economia della testata ha creato l’Hyde perfetto contraltare del Jekyll che qui vediamo in Mister No. Michael è ciò che sarebbe Jerry senza quel suo gran cuore – senza, sarebbe a dire, la sua generosità declinata per ogni aspetto della vita e che si traduce in attitudine alla vita: pulsione di vita. Jerry Drake ama da ogni angolazione il suo stare in questo mondo, e desidera vivere con gioia; Michael Morgan è invece puramente avido della vita: affamato di gratificazioni epidermiche e quindi inesauribili, roso da un’ansia di consumare la vita che si traduce in pulsione di morte. Castelli innesca in tal modo uno scontro durissimo, spietato sotto il profilo delle emozioni e del carattere dei protagonisti, e non meno intenso per il lettore; uno scontro che da individuale trasporta anche sul piano sociale, sul piano del dissidio inconciliabile (appunto) tra etica e società dei consumi, per cui in Ratso e nella sua folle fame di consumare vita non apprezziamo un’immoralità ma la mancanza di una qualsivoglia etica, così come necessario per l’uomo-ingranaggio della società dei consumi. Michael Morgan III è una figura interamente tragica e senza redenzione, come solo i grandi scrittori sanno costruirne: il suo “riscatto” finale è solo apparente (e funzionale a renderlo accettabile agli occhi di Sergio e dunque pubblicabile su una testata di fumetto popolare da edicola destinata soprattutto a dei ragazzi); una lettura scevra dalle emozioni adolescenziali e dal loro impatto permette di ammirare, soprattutto nel finale, il ritratto coerente di un narcisista: infantile, immaturo e nichilista, il cui bisogno ossessivo di protagonismo e autoaffermazione, che nasce dal confronto schiacciante con un padre impossibile da eguagliare, lo conduce infine a dare compimento alla sua pulsione di morte (il che, incidentalmente, serve anche a salvare Mister No). Un tragico topastro: una figura umana sordida e che, nel suo essergli un negativo speculare, non a caso tira più volte fuori il peggio di Jerry, che arriva a picchiarlo con rabbia, ma la cui rinunciataria inadeguatezza alla vita finisce per smuovere il lettore, e in qualche modo lo stesso Jerry, comunque più severo del lettore: Ratso è un tragico topastro, nella pienezza di entrambi i vocaboli.
Come detto, attorno a questi due irreconciliabili protagonisti Alfredo Castelli muove uno stuolo di personaggi a cui infonde sapore di autenticità anche con solo una scena, una battuta. Con l’eccezione di Phil Mulligan, amico di Mister No già visto in precedenza e che in séguito diventerà uno dei suoi “pard” più significativi (tra l’altro qui poco alla ribalta), vediamo un defilé di veri e propri ratsos: equivoci, squallidi, talvolta abietti individui a cui Castelli non concede la grandiosità della nausea di vivere di Ratso ma che, singolarmente e come coro della storia, amplificano quel sentore di malato, di marcio, del tono principale del racconto. Poche pennellate e l’anonimo regista cinematografico della sequenza iniziale della storia – peraltro un saggio dell’abilità del Castelli brillante – ci viene mostrato per l’uomo minuscolo che è, perfettamente organico alla stessa società dei consumi che partorisce i Ratso, e che incarna l’incompatibilità tra Jerry e il mondo del cinema (ovvero il mondo dell’apparenza, che Alfredo aveva già randellato in una sua precedente storia). Una breve scena di vita, di cui ci viene mostrato solo l’essenziale, lasciando a noi di immaginare i retroscena, e il gangster Masulli assume una dimensione compiutamente umana, restando per altro il gran bastardo che è: perché è del tutto normale che un figlio di puttana abbia e viva degli affetti. E così, un Castelli in stato di grazia mostra tutta la ferocia e insieme il pieno essere umano della nemesi di Mister No, quel Jackie con il quale realizza un raffinato ritratto di autentico psicopatico; così come sa rendere repulsivi e nuovamente del tutto verosimili nel loro squallore i Forrester o i Creuza e il loro schema di vita fatto di prudenti gradazioni di potere, di soprusi codardi, di indifferenza nei confronti dell’altro e degli altri.
L’articolato racconto castelliano prende corpo e sostanza dei disegni di un Roberto Diso giunto alla maturità piena. Che siano i lussureggianti spazi amazzonici oppure il volto coloniale di Manaus; che siano gli ambienti claustrofobici di miseri appartamentini newyorkesi oppure le strade brulicanti della metropoli nordamericana; che siano quelle stesse strade in notturna, a mostrare il volto più pericoloso e ansiogeno oppure gli uffici eleganti e anonimi di un businessman; che siano infine i volti espressivi, “parlanti” degli uomini e dei topastri – quali che siano le tavole che scorrono sotto gli occhi del lettore, la sua attenzione è catturata dal quel segno vigoroso in grado di tradurre in immagine ed emozione il testo profondo della storia. Vediamo così il disegno di Diso virare verso rappresentazioni più grottesche, specie nei volti e nella gestualità delle figure umane, nelle scene dove Castelli dispiega tutta la sua verve comica; si fa invece pienamente drammatico laddove il racconto entra nelle scene e sequenze a più alto impatto emotivo. L’artista romano raggiunge i risultati migliori nella caratterizzazione dei volti, sui quali imprime un carattere di realismo, di autenticità che lasciano ammirati (un solo esempio per tutti: la finezza espressiva e psicologica con la quale ha saputo ritrarre l’anziana affittacamere che vediamo nell’albo eponimo della storia, il numero 87); non meno che nelle splendide scenografie newyorkesi visualizzate ricreando un immaginario del grande cinema americano degli anni ’40/50 del secolo scorso.
Rileggere queste storie ormai lontane di decenni dalla nostra realtà d’oggi è un esercizio al contempo gratificante e amaro. Alla gratificazione per ritrovare quei racconti che hanno accompagnato momenti importanti della vita e talvolta hanno perfino contribuito a plasmarli si accompagna un’amarezza che non è legata al rimpianto del buon vecchio tempo andato ma, purtroppo, alla constatazione che all’interno della fucina che fu di Sergio è sempre più raro, sempre più improbabile, trovare racconti di questa energia, di questa vitalità. Non perché i racconti di una volta fossero più “belli”, ma perché una storia così in apparenza da poco come un racconto a fumetti di Mister No intitolato Gli ostaggi illustrava per filo e per segno la realtà dei suoi tempi e mostrava cosa significhi vivere ed essere umani; divertendo, avvincendo, affascinando i (giovani) lettori. Un connubio che non si ritrova quasi più del tutto negli albi attuali.
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