L’uscita del quarto e ultimo tomo di Tokyo Love Story di Fumi Saimon invita a uno sguardo retrospettivo su questo manga cult degli anni Novanta, trasposto in serie televisiva, opera di un’autrice di successo di cui questo è il solo lavoro, meritoriamente pubblicato da BAO, disponibile in Italia.
Due amici del liceo, Kanji e Mikami, caratterialmente all’opposto (uno serio sino allo sfinimento, l’altro un dongiovanni) salgono dalla provincia alla capitale, e lì incontrano una vecchia compagna di classe, Satomi, di cui entrambi erano segretamente innamorati. Al triangolo si aggiunge un’estroversa collega di lavoro, Rika, la quale – cresciuta in Africa – è lontana dagli abituali cliché nipponici.
Storia classica: x ama y ma z si intromette, e se poi si aggiungono þ e pure µ, allora l’operazione diventa un’equazione a più incognite di difficile risoluzione. Le peripezie dell’amore, note sin dalla notte dei tempi.
Allora perché rileggere l’ennesima love story?
La ragione, che esalta la differenza e il potenziale che racchiude, risiede nel patronimico: Tokyo. E in questa presenza narrativamente ellittica sta tutta la differenza. È la città, per scelta invisibile, stilizzata al punto di essere irriconoscibile (Saimon non disegna nulla che la caratterizza, i grattacieli sono rettangoli neri con rettangoli e cerchi bianchi a rappresentare le luci di finestre e lampioni, invero folgoranti, nella realtà simili al cielo stellato), a dettare azioni e motivazioni dei protagonisti, che più volte si chiedono cosa sarebbe successo se fossero rimasti in provincia.
È alla capitale nipponica, da sempre in accelerazione proteiforme, che uno dei protagonisti – il dongiovanni pentito – paragona la più ecclettica e imprevedibile delle compagne: «Rika è come Tokyo: volubile, capricciosa, stimolante… molto affascinante, però… anche molto stancante, dico bene?»
La domanda getta una luce nuova sul carattere delle pedine in gioco, obbligando a rileggere (e quindi a ripensare) tutti i passaggi precedenti. In primis per quanto riguarda proprio Rika, la cui ambivalente libertà, anche sessuale, nasconde invece una forte carica di denuncia e di incoraggiamento femminista, in quegli anni – all’interno della società nipponica – precursori. È lei la beniamina dell’autrice, che riconosce nel personaggio la chiave di volta del racconto e a cui augura – all’amica che ha ispirato il personaggio, in una traslitterazione eloquente – di essere «sempre felice».
Il segno, tipico degli anni Novanta, affascinante perché tinto di malinconia per il lettore adolescente in quel periodo, può apparire datato, a tratti persino approssimativo nei profili stereotipati. L’interesse risiede nella costruzione narrativa, nel procedere da una pagina a quella successiva e, in chiave anche storica, nei codici grafici che poi faranno scuola: Saimon li impiega con estrema efficacia, che l’uso sia parsimonioso o prolisso.
Scriveva Giorgio Amitrano, nella prefazione alla prima edizione italiana di Kitchen di Banana Yoshimoto (Feltrinelli 1991), di come l’influenza del cinema e del manga nella prosa dell’allora esordiente scrittrice si coniugasse con la sintesi di matrice impressionista di un maestro come Yasunari Kawabata: «Una tecnica tipica di Kawabata consiste nel sospendere improvvisamente quella specie di commento fuori campo con cui uno scrittore interviene per illustrare la condizione interiore del personaggio, per lasciare che siano gli oggetti o il paesaggio che questi sta guardando a indicarci il suo stato d’animo».
Si osservi la terza tavola del quarto volume: Kanji e Mikami si ritrovano inaspettatamente sullo stesso vagone della metropolitana, incapaci di guardarsi e di parlarsi dopo che uno sta con l’ex-compagna dell’altro. Nell’ultima vignetta la metro si getta a tutta velocità nella notte, raffigurazione perfetta dello stato d’animo dei due amici, ciascuno perso nella propria notte dei sentimenti.
L’imbarazzo e la sorpresa sono invece rappresentati attraverso un piano ravvicinato al volto o agli occhi, e se è vero che il procedimento può apparire ridondante, la ripetizione è efficace sul piano narrativo, creando un’aspettativa per quel che seguirà, diverso ad ogni occasione.
Mutuando invece da predecessori come Riyoko Ikeda (il cui manga emblematico resta Berusaiyu no bara, al secolo Lady Oscar, 1972-1973) ma anche Moto Hagio (alla ribalta l’anno scorso al Festival di Angoulême con una retrospettiva unica in Europa, Moto Hagio, au-delà des genres), Saimon, al fine di rappresentare lo stato d’animo che accompagna una sospensione temporale di tipo interlocutorio (per esempio quando un personaggio ha una improvvisa rivelazione, o vive un sentimento contradditorio, o ancora prova altro rispetto a quanto mostra poi col tipico imbarazzato sorriso di circostanza giapponese), riproduce la vignetta antecedente “radiografandola”, invertendo il bianco e nero in un processo di rara eloquenza narrativa.
È una tecnica che, formalizzata non dallo scambio cromatico ma dal cambio nel registro caricaturale, farà strada: Akira Toriyama ne è stato un maestro.
Tutte le scelte formali sono consustanziali alla narrazione e non occultano la freschezza dei dialoghi e delle situazioni, sorprendentemente espliciti oggi come allora (e non si sa se più oggi o allora), anche appunto in chiave femminista. Una frase come «Non ti ricordi quando mi dicevi che ero carina mentre mi leccavi intorno all’ombelico? Siamo intimi, tu e io!» diventa una domanda gioiosa proprio grazie al contesto grafico nella quale si trova inserita.
Leggere Tokyo Love Story fa capire anche – ed è tutt’altro che secondario – da dove viene un manga come Tokyo Tarareba Girls di Akiko Higashimura (2014-2017, inedito in Italia, e che ha avuto a sua volta, al pari di Tokyo Love Story, una trasposizione televisiva), vero e proprio fenomeno di costume nel Paese del Sol Levante.
La cronaca, semi-seria, segue le peripezie amorose di tre trentenni tokyoite (data fatidica nella quale in Giappone una donna è già ingiustamente considerata «fuori tempo massimo») che si sono fatte la promessa reciproca di sposarsi prima dei quarant’anni. Higashimura, mamma celibe che ha rivendicato il secondo divorzio perché il marito «non si occupava della casa», e che dispensa consigli a lettori e lettrici anche nei bonus dei suoi manga, esplora ed esplorando fa esplodere tutti i cliché di genere nipponici: dal maschio che dopo il sesso invita a guardare il DVD di Dark Knight alle cure per il corpo a cui le trentenni si lasciano andare, ben sapendo che non potranno mai competere con più giovani rivali.
La mangaka ha dichiarato di essersi ispirata a Sex and the City ma, da lettrice impenitente che ha divorato chilometri di manga (e si vede dalle strizzate d’occhio grafiche, tutte perfettamente identificabili, che Higashimura dispensa qua e là a seconda se la circostanza richiama situazioni shojo, shonen, sheinen e chi più ne ha più ne metta), l’impronta lasciata da Fumi Saimon è ben più incisiva e riconoscibile al di là della modernità del segno, delle inquadrature e delle strutture narrative (ma non nei dialoghi, molto più pudici), ad iniziare proprio dal patronimico rivendicate da entrambe sin dal titolo: Tokyo, come se la capitale definisse un modus vivendi al quale o si soccombe o si tenta di resistere, pagando un prezzo alto fatto di incomprensioni e solitudine, ma che solo permette la redenzione (Mikami), l’autenticità (Kanji), l’emancipazione (Satomi) o l’indipendenza (Rika).
E nel disegnare questo cammino, Tokyo diventa allora un paradigma, e la lezione si fa universale.