
Alessandro Bilotta è, usando un’espressione abusata, uno degli sceneggiatori più interessanti della Sergio Bonelli Editore e, a dirla tutto, dell’intero fumetto contemporaneo.
La pervicacia con cui ha continuato a proporre personaggi, storie e atmosfere ben poco “commerciali” (definizione molto stupida visto che il commercio è l’incontro di domanda e offerta e, se a priori non offri, cosa ti fa escludere che ci sia domanda?) fa onore a lui e fa onore alla Bonelli che, con tutte le incertezze, le contraddizioni e le inversioni di rotta date dal momento non proprio esaltante per l’editoria, continua ad investire su di lui.
Io, personalmente, sono stato uno di quelli che ancora oggi si pente di “essere arrivato tardi a Mercurio Loi“, abbassando anche solo di una unità i dati di vendite quando si passava alla conta. La chiusura della testata la vivo come una perdita personale.
Quando mi sono accorto che stavo facendo lo stesso errore con Eternity mi sono imposto di rimediare immediatamente (“immediatamente” = “uscita del terzo volume”, non sono esattamente un fulmine).
Quello che ho trovato è stato di nuovo qualcosa che non mi aspettavo.

Ci ho trovato “soltanto” la storia del cronista scandalistico Sant’Alceste, pseudonimo di Alceste Santacroce o, semplicemente, Alceste come lo chiamano quelli che si illudono di avere un qualsiasi grado di intimità con questo dandy allampanato dai modi garbatamente maleducati che occupa a titolo gratuito una suite in un discreto albergo per VIP, quale compensazione di non precisati “favori” fatti a non si sa bene chi. Che passa da una festa in maschera per tossicodipendenti bene in vista ad un happening provocatorio quanto l’allusione sessuale sulle banane (cit. Caparezza) e a tavolini di riservati caffè in cui si snocciolano pomposamente verità filosofiche e olive da cocktail.
Ci ho trovato di nuovo Roma, ma questa volta non la Roma degli ultimi Papi-Re, ma quella contemporanea di Cinecittà, degli studi televisivi RAI (non citata esplicitamente), dei portaborse, dei segretari particolari, delle influencer e degli “attricetti” da reality, quella Roma che potrei continuare a descrivere con argute immagini ma che qualcuno ben più qualificato di me definì quella “Roma di merda” (cit. Remo Remotti).
Ci ho trovato quindi quello che ovviamente si può trovare dato il protagonista e il contesto: una squallida soap opera interpretata da personaggi gretti con una umanità inversamente proporzionale all’influenza che hanno sulle vite degli altri – influenza che, comunque, è sempre limitata e traballante in quanto nessuno di loro è neanche lontanamente “un uomo di potere”. Al limite sono uomini (e donne) “di potericchio”, paraventi ad uso delle masse, che li idolatrano non aspettando altro di poterli denigrare, piazzati così lontano da chi conta veramente che solo con molta fatica, ogni tanto, si riesce ad intravedere questi ultimi.
Ci ho trovato uno sceneggiato che nell’epoca postmoderna è stato portato in scena ormai innumerevoli volte, prima con furore iconoclasta e poi con la precisa coscienza, da parte di Cinecittà ancora prima che Hollywood lo capisse, che autodeprecarsi vende tantissimo e che, un po’ come per “Report” della Gabanelli, una volta che lo spettatore avrà detto “che schifo, che vergogna”, la sua coscienza sarà a posto.
In sostanza ci ho trovato qualcosa che non mi interessava per niente.
E mi è piaciuto tantissimo.

In questa narrazione di veniali crudeltà fatte senza neanche pensarci, di personaggi banali che indossano maschere dozzinali per motivi beceri, di benevoli stupratori di menti e corpi e integerrimi pedofili, c’è un ritmo strano che ti obbliga a starci dietro manco fosse un giallo. C’è una sceneggiatura di ferro che sembra arrivare dagli anni d’oro degli sceneggiati televisivi e che faceva brillare di luce propria opere a conti fatti molto “povere” su ogni fronte.
E che la Televisione sia il riferimento principe lo si percepisce sia dall’azione che gira sempre intorno ai suoi luoghi e ai suoi personaggi, relitti dei tempi d’oro come il sardonico Quinto Serafini direttore di Alceste che, riferimento morale per un sacco di bambini diventati adulti grazie ad un ruolo di prete in un teleromanzo, veste le fattezze mescolate di Renato Rascel ed Erminio Macario.
Ma lo si percepisce anche dal fatto che ogni strumento informatico moderno, dai laptop agli smartphone, è disegnato in un evanescente e trasparente celeste: quasi a significare che, nonostante quello che si creda, la “Cattiva Maestra” non ha perso nulla del suo peso e della sua presenza materica e continua ad essere un occhio onnipresente in ogni angolo, ogni casa, ogni stanza e ripostiglio.
Dedicare tutte queste parole alla capacità affabulativa di Bilotta rischia di far sembrare poca cosa il lavoro di Sergio Gerasi copertinista di ciascun volume ed ai disegni del primo, Matteo Mosca disegnatore del secondo e Francesco Ripoli per il terzo. Ma tacere della loro capacità di seguire il ritmo di qualcosa che sembra un mediocre fotoromanzo e renderlo vivo e fluido, anche grazie ai colori di Adele Matera che creano una psichedelica continuità, sarebbe negare che il fumetto non è testo più disegno ma qualcosa che va ben oltre la somma delle parti.
Purtroppo, soprattutto in questo caso, niente è più noioso della descrizione inadeguata di un’immagine che funziona e vi tocca prendere in mano i volumi e credere ai vostri occhi.
Concludendo, Eternity è qualcosa che non mi aspettavo, sembra la dissezione di un cadavere portata avanti da un anatomo patologo insospettabilmente empatico e ciarliero che dialoga con la materia immobile che sviscera fino a farla parlare. È, usando un’altra espressione abusata, una “prova d’autore” che vuole prima di tutto piacere all’autore stesso e, così facendo, piace a chi la legge.
Infatti mi piace leggerlo e mi fa pensare che la mente che l’ha concepito sia un bel posto, ma non ci vivrei.