Che Zerocalcare sia una stella luminosa nel cielo stellato del panorama fumettistico italiano, è chiaro ormai da diversi anni.
Una luce che emana forte sensibilità artistica, movimentata da un senso umano molto profondo.
Precisiamo: Zero è una stella, ma non l’unica del panorama italiano che, per fortuna, oggi rappresenta una straordinaria costellazione di punti luminescenti che ci allietano con opere davvero interessanti.
Quando muori resta a me è una cosmogonia di sensazioni. Un fumetto che ti accompagna lungo un viaggio costellato da emozioni forti e contrastanti.
Il racconto che Michele Rech riesce ad imbastire per presentarci la sua nuova creatura “nerdiana” è qualcosa di personale, di molto intimo che trascende la collettività della condivisione per restare ancorato al suo mondo – attraverso le sue fisime – e spiegarci del rapporto con il padre.
Accennavo prima ad un viaggio. Questo senso di spostamento che per molti diventa un momento importante e atteso durante alcune fasi della vita non è lo stesso per l’autore che, invero, preferisce risiedere spesso nel suo quartiere. Del resto, l’opera in questione parte proprio dal viaggio, da Rebibbia verso un paesino delle Dolomiti – paese d’origine del papà di Michele.
Nel traversare parte dell’Italia per qualche ora (e nella difficoltà del dialogo tra i due protagonisti), si aprono vicende ataviche che Zero racconta con fare sapiente, restituendoci – attraverso il dialetto friulano – una prima narrazione alternativa al racconto principale, andando a scavare con la storia della propria famiglia le diatribe che portarono il nonno ad avere amici e nemici nel paesino di Merin.
Snocciolare determinate situazioni, cercando di poter rompere l’incomunicabilità di una vita, non è affatto semplice.
Il rapporto che Michele vive con la madre non è lo stesso che vive con il padre. Sembrerebbe quasi una cartolina di molte famiglie, quella del figlio-padre e della difficoltà di entrare in relazione, in quel semplice ma seppur difficile atto di comunicazione tra le parti.
Nella suddivisione degli atti, nella storia come anche nella sua vita, Zerocalcare alimenta un altro filone narrativo che porta ai ricordi della sua infanzia e, nello specifico, a quel momento di rottura genitoriale che dividerà per sempre il trio familiare.
Questo momento, arrivato in un’occasione singolare, sarà indicato come “il giorno di Merman”, che verrà ricordato per sempre da Zero.
Prendendo in prestito le parole di un romanzo inglese uscito nei primi anni del ‘900, <<l’imperfezione non è nelle stelle, ma in noi, che ne siamo esseri inferiori>>: ed è proprio questa consapevolezza che dovrebbe portarci a vivere e gestire la nostra vita in maniera più libera e semplice, senza crearci quei muri invalicabili che, come nel caso del rapporto tra padre e figlio, portano soltanto a solitudine e tristezza per arrivare al difficile, quanto semplice atto del dialogo.
Quando muori resta a me è un fumetto che si lascia leggere facilmente in barba alle sue trecento pagine, diventa un’immersione nella vita di Zero e, alle volte, si ha la sensazione di essere parte di questo viaggio, di sentire i loro dialoghi, i profumi, gli incazzamenti quotidiani e perenni, senza mai trovare una valvola di sfogo che possa mettere pace alle fisse mentali del figlio, che non riesce a capacitarsi della funzione del mondo – semplicemente perché lui fa parte del “suo mondo” e non conosce, quindi, le regole che gestiscono il nostro.
Questo plot narrativo – che dopo tanto tempo si discosta dal reportage – porta il fumettista di Rebibbia a scrivere semplicemente della sua condizione in relazione al padre, alimentando un discorso sul fattore genitoriale, parentale, dei generi e delle rappresaglie della mente umana. Non trascura la madre, di cui parla spesso nelle sue opere (vedi soprattutto Dimentica il mio nome) e neanche gli amici o le incursioni politiche.
Sicuramente uno Zerocalcare più amabile, più aperto all’intimità della sua vita ma con gli stessi problemi di sempre, tanto che arriva spesso ad autocriticarsi per ciò che ha fatto, per come lo ha fatto, con quel dramma interiore che non lo abbandonerà mai: il senso di colpa.
Quel sentimento che di certo non ti insegnano a scuola, che non si riesce a capire – e figuriamoci viverlo.
Michele Rech sente questa pesantezza, fortemente, tanto da portarlo a disegnarsi allo specchio in modo realistico. Non più il suo alter ego Zerocalcare a fumetti, bensì il ritratto di se stesso che si riflette con la versione “reale”. Un flusso di sensazioni che ti scaraventano nel marasma cosmico delle emozioni. Gran parte delle volte non richieste!
Così, attraverso la sua cultura nerd, i suoi affetti, le sue visioni, Zero ci regala un fumetto che diviene – allo stesso tempo – un sunto della sua condizione relazionale tra genitori e figli.
Difficile dire se questa storia è consigliabile ai padri piuttosto che ai figli (maschi) perché entrambi, leggendo, potrebbero aprirsi a nuove condizioni.
Una bellissima dicotomia che trova un senso logico solo nella mente di ogni singolo lettore. Solo di colui che riesce ad entrare in rotta di collisione con l’universo Calcareo.
Quando muori resta a me va interpretato come una notte stellata, come quel momento in cui alzi lo sguardo al cielo e, osservando le stelle e la loro luminescenza, riesci ad orientarti nel caotico mondo personale che ognuno di noi si porta dentro.
Così, solo dopo aver distolto l’attenzione dal cielo e tornando a guardare la vita reale, capisci che non siamo altro che polvere di stelle.
Perché alla fine, quando tutto finisce, qualcosa ci resta.