American Jesus Trilogy, pt.I

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Analisi del libro primo “Il prescelto”, di Mark Millar e Peter Gross

Come disse un tempo qualcuno, la religione è l’oppio dei popoli; alla stessa stregua, asserire che quelli connessi alla religione siano da sempre aspetti critici per la caratterizzazione e l’evoluzione delle civiltà umane, è l’ovvio dei popoli.
La religione, come black box di riti e misteri (intesi come verità rivelate) che si porta appresso una serie di “regole del gioco” per stabilire premi e punizioni, ha da sempre instillato nell’uomo una pletora di sentimenti diversi (e contrastanti), che vanno dall’ammirazione alla blasfemia, dal deliquio al cinismo; più di ogni altra cosa, però, l’uomo ha sempre subìto la fascinazione del volgere a suo proprio favore le “regole del gioco” di cui prima, o meglio del cercare di reinterpretarle secondo la logica più o meno antropocentrica, al fine di ricondurle ad una dimensione di certa qual controllabilità.

Va però da sé che, fatta la legge trovato l’inganno (come si suol dire), per cui al perverso piacere di soggiogare i disegni celesti alle speculazioni terrene, si è sempre accompagnata l’ancor più perversa ricerca di cavilli, scappatoie e loopholes annidati in quelle stesse speculazioni, e che permettessero di “fregare” l’essere soprannaturale di turno, appagando così l’umana bramosia di proibito – in questo caso, poter dire che anche lassù (o laggiù) non è tutto rose, fiori e infallibilità.

Esempi del genere si rinvengono nella produzione artistica e letteraria di ogni tipo, ogni dove e ogni tempo: tralasciando la messe di racconti popolari che vedevano dei “poveri” diavoli venire gabbati da poveri (loro sì, ma scaltri e cinici) villici, basti pensare al controverso Dogma di Kevin Smith, dove Loki e Bartleby, angeli cacciati dal Paradiso, trovano un modo per ritornarvi sfruttando un’apparente falla nelle leggi divine. In ambito fumettistico, spicca per cattiveria l’antologia “In principio. Storie crudeli della Bibbia” a cura di Alan Moore e Neil Gaiman, opera rutilante e dissacratoria incentrata sui racconti del Vecchio Testamento (ma non solo) che scaturisce direttamente dal panorama del fumetto underground inglese di inizio anni ’80 del secolo scorso. Lo stesso Moore ha rappresentato in maniera molto efficace l’incommensurabilità tra logica umana e divina – e la ricerca di espedienti per bypassarla – nella figura del Dottor Manhattan in “Watchmen”. Mike Carey ha superbamente raccontato la parabola di Samael/Lucifero nell’eponimo spin–off tratto dal capolavoro di Gaiman “Sandman”, mentre Warren Ellis ha affrontato la materia tanto dal punto di vista scientifico/filosofico in “Supergod”, quanto da quello più fantastico e immaginifico in “Planetary”. Menzione particolare merita infine Garth Ennis che, al di là del monumentale “Preacher” (la cui idea centrale aveva già timidamente introdotto tra le pagine di Hellblazer), con la trilogia (alquanto) sopra le righe delle “Cronache di Wormwood” si è divertito a reimmaginare nella NYC di oggi i rapporti tra Cristo e Anticristo, descrivendoli come una coppia di giovani adulti con due figure paterne pesantemente ingombranti. In lidi ancora più vicini a noi, è degna di nota la sottotrama imbastita da Paola Barbato, che vede Dylan Dog interagire a più riprese con l’angelo caduto Dust e il demone Ash nei numeri 221 e 421.

Anche Mark Millar ha voluto cimentarsi con la materia, agli albori del Millarworld intorno al 2003, e il risultato è stato “Chosen” (it.: “Il prescelto”), primo capitolo di un affresco più ampio, programmato già all’epoca in forma di trilogia, le cui due rimanenti parti sono state però completate solamente dopo circa 20 anni.
Il plot è noto: il dodicenne Jodie Christianson sopravvive, miracolosamente illeso, ad un incidente mortale – un tir gli precipita sulla testa dopo aver sfondato il guardrail di un ponte – e inizia a pensare di essere la reincarnazione di Gesù Cristo in vista dell’Armageddon, salvo poi apprendere di essere in realtà la prole della fazione opposta.

Tutta la vicenda è una rilettura in chiave post-moderna del Nuovo Testamento. A partire dal titolo stesso, Millar gioca la carta del paradosso, o meglio del ribaltamento di prospettiva, per descrivere la parabola evolutiva di Jodie e del microverso che ruota attorno a lui, in quel di un’anonima cittadina dell’Illinois dove era stato nascosto prima di rivelarlo al resto del mondo. Si parte dalle generalità del protagonista – Jodie è la versione unisex del nome femminile di origine ebraica Yehudit, che significa Giudea, o ebrea; sul cognome non c’è neanche la necessità di applicarsi – per passare ai genitori, o meglio alla madre e al padre putativo: in questo caso il ribaltamento sta nella condizione di frigidità della madre di Jodie, contrapposta al carattere di verginità di Maria. Il gioco prosegue riproponendo alcuni tra i più significativi eventi narrati dai Vangeli, dal ritrovamento di Jodie a scuola (il Tempio) che mostra la sua vasta cultura generale ai suoi docenti (il consesso di saggi), alla trasformazione dell’acqua in vino, passando per diversi episodi di guarigione di malati e storpi, la cricca di giovani adolescenti che fa quadrato attorno a Jodie a mo’ di servizio d’ordine (il seguito di apostoli e discepoli), fino allo show con tanto di effetti speciali per la risurrezione di Lazzaro, o meglio in questo caso del cane di padre O’Higgins.

Il vero valore aggiunto di “Chosen” risiede però solo apparentemente nella citata visione post-modernista, intesa come applicazione di una tecnica narrativa basata sul ricorso a elementi di cultura pop(olare) contemporanea per ridefinire eventi e personaggi del passato – in questo caso la reinterpretazione di episodi evangelici. Da questo punto di vista, l’evoluzione della cultura popolare ha sempre portato ogni generazione a creare e impiegare in tutti i campi linguaggi più in linea con il sentire contemporaneo, vuoi per fini ironici/di intrattenimento, vuoi per intenti rivoluzionari (come nel caso di 1984), vuoi perché è verosimile che dei neologismi – o delle accezioni rinnovate attribuite a vocaboli già esistenti – risultino più efficaci nel veicolare un dato concetto, rispetto a parafrasi o circonlocuzioni (#metoo): il linguaggio, come l’uomo, muta (seppur con effetti altalenanti), come tra l’altro efficacemente dimostrato qui.

Millar non ha quindi fatto sfoggio non richiesto di erudizione, anzi ha usato la deriva post-moderna come base per (i) rendere in maniera convincente i percorsi di ragionamento di un dodicenne degli anni ’80 del secolo scorso, con tutto il bagaglio di sensazioni contrastanti (come il disincanto e la spavalderia) tipici di quell’età, (ii) delineare l’evoluzione di queste stesse sensazioni secondo una traiettoria diegetica fondamentalmente coerente, nel momento in cui Jodie acquisisce maggiormente (ma non completamente!) la coscienza di sé e delle sue capacità che trascendono gli umani limiti, e (iii) garantire la tenuta di tale coerenza (consistency, direbbero in terra d’Albione) anche per i personaggi di contorno.

A tale proposito, il personaggio meglio delineato al di là di Jodie è padre O’Higgins, che si trova ad essere testimone oculare di accadimenti dei quali aveva fino ad allora solamente raccontato, e che proprio per questo oppone un muro di non–accettazione attraverso cui Millar è particolarmente capace di guardare con occhio dissacrante (ma al contempo comprensivo) al baratro di ipocrisia e relativa intima consapevolezza dei propri limiti in cui ogni forma religiosa rischia di cadere, se messa di fronte a quegli stessi elementi fondanti su cui ha eretto i propri palazzi di ritualistica (spesso più esoterica che essoterica).

Rimanendo in tema di ribaltamenti di prospettive, il commento grafico ad opera di Peter Gross si distingue per il suo tono quasi dimesso, assolutamente non ipertrofico. Azzardando un paragone con il linguaggio cinematografico, è come se fosse la fotografia di un telefilm anni ‘70/’80, laddove le produzioni risentivano ancora molto di un impianto teatrale pur iniziando a codificare un nuovo tipo di linguaggio, ma erano ancora lontane dal glam degli anni ’90. Anche il ricorso ad una tecnica acquerellata accentua un senso di bidimensionalità, per cui il risultato finale è poco più di un sussurro alle papille visive del lettore. Paradossalmente, ciò diventa funzionale ai guizzi del testo, che forniscono la dimensione mancante, e il risultato finale ben testimonia delle potenzialità insite nel connubio tra parole e immagini.

“Chosen” si concludeva all’epoca con un cliffhanger pressoché perfetto, mostrando un trentatreenne Jodie divenuto Presidente degli Stati Uniti d’America, in procinto di salire sull’Air Force One per dirigersi a Megiddo in Terrasanta in vista dello scontro finale con il suo alter–ego.

Dissolvenza

 

Sullo stesso argomento:
American Jesus Trilogy, pt.II
American Jesus Trilogy, pt.III

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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