Dylan Dog Color Fest n. 47 “I vivi e gli altri”

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Ancora una volta di scena il Dylan “alternativo”, che cerca di essere più sincero di quello “ufficiale”

Che il Color Fest sia una ricerca della sperimentazione, è ormai cosa risaputa. 

Che la ricerca di un sentire (o anche di un sentore) alternativo riesca qualche volta a tirare delle corde che il Dylan della serie mensile non è (più) in grado di toccare, è un aspetto che magari risalta di meno. 

Che il risultato finale non permetta di capire dove si volesse andare a parare, indipendentemente dalla volontà degli autori, è un effetto secondario non così infrequente.

La “Presenza invisibile” di Dylan nel primo racconto vede Enrico Manzo avviarsi proditoriamente lungo sentieri già propri di Ambrosini, o forse ancor di più di Bilotta, ma senza il coraggio di dare anche quel minimo di chiusura che, checché se ne dica, tanto fa bene alla narrazione. Laddove Nucci aveva confezionato il trailer perfetto per una fanfiction incentrata sull’Indagatore dell’Incubo, qui si assiste al susseguirsi di sensazioni e suggestioni che montano fino all’ultima vignetta, lasciando il lettore con un senso di straniamento che nulla ha a che spartire con il classico “finale aperto”, o quel senso di incompiuto – tipico ad esempio di molta letteratura (disegnata e non) del Sol Levante – derivante da una precisa scelta stilistica e/o autoriale. In questo, poco valore aggiunto danno la presenza (oltre) sopra le righe di Groucho, o la delicata presenza di Francesco Dellamorte e Gnaghi.

Il tratto di Alessandro Giordano si posiziona dalle parti di Emanuele Fior, capace di giocare efficacemente sulle espressioni pur all’interno di una regia che non concede particolari concessioni a soluzioni grafiche originali.

Lo “Sguardo maligno” del Krampus anima invece il periodo natalizio di Dylan & Groucho, nella storia architettata da Paola Barbato. Lo sviluppo della vicenda, basato sul rispetto di regole e technicalities alle quali nemmeno il peggior nemico del Natale può sottrarsi – perché “così è scritto” – ricorda da vicino altre storie dell’autrice (ad esempio qui e qui), le quali tradiscono la sua passione per peculiari contorsioni narrative che in alcuni casi ricordano da vicino gente tipo Neil Gaiman o Terry Pratchett. Il tratto manga–style adottato da Jacopo Camagni conferisce al tutto una pulizia visiva che in certi momenti aiuta a districarsi nei labirintismi barbatiani, sebbene l’originale rielaborazione dei due characters tenda alla lunga ad allontanarsi un po’ troppo da quella canonica (vedasi Groucho, soprattutto nelle ultime tavole). Nota a margine: la Barbato fa dire al Krampus che la casa di Dylan Dog è “inviolabile”: passaggi del genere fanno la gioia dei fanatici delle teorie sui personaggi!

Quasi all’opposto, Piero Dall’Agnol si affida alla levità del tratto a pastello per portarci assieme a Dylan in quel di Capri, nell’ultimo viaggio di un “muoritore” professionista, così come presentatoci da Bruno Enna. La storia stessa si dipana lieve, con il risultato che il peso specifico dello spiegone, sebbene limitato nel numero di pagine, tende ad essere sproporzionato rispetto al resto. Enna fornisce una chiave di lettura neanche troppo convinta (o convincente) della vicenda, adagiandosi sul numero limitato di pagine. Un occhio esperto potrebbe al limite collegare l’iconografia della morte (nome in codice: Annalisa) qui fornita, con una similare già vista altrove, ma invero poco di più si ravvisa nella vicenda, e il paragone tanto strillato con i “Tre fantasmi” dell’opera dickensiana appare alquanto fuori luogo.

Il Dylan del Color Fest è spesso atipico e sperimentale solo nella sua veste grafica, mentre in sede di scrittura le libertà che gli autori si prendono sono sempre poche – a meno di non parlare di guest star di un certo peso, alle quali vengono fatte alcune doverose concessioni.

Non è però questo il caso: così, mentre i vivi conducono esistenze di attesa e ricerca, gli altri rimangono talmente ai margini del campo visivo che neppure la loro assenza riesce a creare quel vuoto che il lettore è chiamato a riempire con il suo attaccamento al personaggio.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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