In un crescendo shakespeariano, il primo tomo lasciava il lettore davanti ad un amore creduto perso per sempre. Nel secondo e conclusivo volume, Juanjo Guarnido prosegue la sua investigazione della condizione umana attraverso i codici del noir americano anni Cinquanta: attraverso la speculazione edilizia (dopo il giallo, il razzismo, il maccartismo, il blues, il Messico), è d’arrivismo che si tratta, di sete di gloria (più che di potere, quello lasciato ai piccoli), di tradimento.
Giunti al 7° volume di Blacksad, la sorpresa della metafora animale – pur stemperata – resta giusta e calibrata, e l’arco narrativo esteso permette di ritrovare una freschezza che, a detta di chi scrive, si era persa nelle due storie precedenti (L’inferno e il silenzio, Amarillo).
La tavolozza cromatica di Juan Díaz Canales, il cui acquarello è talmente virtuoso da far apprezzare persino i lati non disegnati delle vignette, si arrichisce di soluzioni inaspettate: alle inquadrature cinematografiche, mai fini a se stesse, si aggiungono due tavole intere, la cui parsimonia – a dispetto dell’abuso che se ne fa nei comics americani – le rende efficaci punti di svolta che concludono, per rilanciarla, l’azione. Sorprendente perché naturale la rappresentazione grafica dei ricordi del giovane Dill, la cui palese evocazione (cromatica e scenica) delle tele di Van Gogh assume una triplice funzione metanarrativa: del talento pittorico di Dill, della sua malattia e della desolazione di ciò che racconta.
Alla fine, più che dare una seconda opportunità all’amore, Guarnido e Canales sembrano dirci che non la vendetta, ma la giustizia è un piatto che si consuma freddo.