Arte ed Emozione: softcore Dylan

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Recensione della storia in due parti di Roberto Recchioni e Corrado Roi

Roberto Recchioni torna sulle pagine di Dylan Dog per la prima volta dalla chiusura del suo ciclo, ed il conseguente passaggio di consegne con Barbara Baraldi; soprattutto, torna con Corrado Roi.

Di Dinamici duo

Come ampiamente annunciato da strilloni ed editoriali, in questa storia l’artista varesino riesce a superare se stesso in quello che si potrebbe considerare il suo Magnum Opus sulle pagine dell’Indagatore dell’Incubo. Se con “Il mosaico dell’orrore” Roi aveva raggiunto il primo, vero e compiuto, picco qualitativo, a questo è seguita una fase di eccessiva caratterizzazione – una sorta di “troppo pieno”, come detto a suo tempo qui – dalle cui ceneri è quindi sorta una più consapevole ricerca di affinamento del proprio stile che, passando per altri lidi bonelliani (cfr. ad esempio Dampyr n. 219 “Tutto per amore” e Dampyr n. 234 “Le Torri di Carcosa”, per non parlare di UT), corona adesso il proprio percorso con un nuovo spettacolare picco.

Roi supera se stesso assommando echi che vanno da dall’Arzach di Moebius a Hans Ruedi Giger (ivi compresa la sua cover dell’album “Brain Salad Surgery” degli ELP), passando per Klimt fino ad arrivare a Toshio Maeda. In cima a questo, la bellissima e affascinante Lucille, caricata dallo sguardo conturbante di Eva Green, che si fa portavoce di tutto l’afflato erotico/hentai di cui Recchioni impregna l’ordito narrativo: una stretta e fruttuosa collaborazione quella tra i due autori, come tra l’altro sottolineato dalla stessa Baraldi nell’editoriale, che partorisce la perfetta mise en place per questa sceneggiatura.

A tale proposito, l’attuale ex-curatore della testata sceneggia con grande perizia tecnica la storia in 16:9. Ogni tavola viene suddivisa in tre strisce orizzontali, instillando così nel lettore quel senso di profondità di campo che si prova trovandosi di fronte ad un grande schermo cinematografico, con inquadrature che lentamente incedono, l’una di seguito all’altra, rimandando ad esempio ai 2,76:1 di Tarantino, se non (un po’ più alla lontana) alla tecnica di direzione propria di Wes Anderson. Un esercizio di stile, certo, ma ugualmente fortemente efficace nella resa e nel risultato.

Come già detto infatti a suo tempo, la sceneggiatura è la fase di lavoro in cui un soggetto di partenza viene “tradotto” nella composizione ritmica di dialoghi, inquadrature, e generale approccio grafico alla materia narrativa. Anche in questo caso, Recchioni convoglia e condensa attorno ad un soggetto relativamente esile un mare magnum di input, come l’arte, la sensualità, il tentacle porn, i videogiochi anni ’80, scegliendo volutamente di (non) fare giocare ai dialoghi la parte del leone – del resto, sono numerosi i capolavori della nona arte del tutto (o quasi) privi di balloon, basti pensare a ¡Infierno! a firma del dinamico duo Faraci/Ziche – per concedere al suo sodale un’esondazione grafica di rimarchevoli proporzioni.

Di (ri)scrittura delle storie

È ben noto l’adagio secondo cui “ogni scrittore scrive fondamentalmente sempre la stessa storia”. Più volte si è sottolineato come il Dylan Dog made in Rrobe richiami (troppo) da vicino la prima vera e propria hit commerciale dell’autore, ossia John Doe. L’approccio personale all’universo dylaniato da parte dell’autore romano è quindi consistito fondamentalmente nel voler adattare un certo tipo di argilla in un certo tipo di stampino, interpretando e strumentalizzando a proprio modo aspetti della matrice originaria quali la patina di anti-eroe, l’ironia e un certo tipo di sarcasmo. I risultati hanno sempre, inevitabilmente, presentato un retrogusto di affettazione; qualche volta è andata meglio, come nel caso del team-up con Batman, dove i numerosi vincoli dati dal minutaggio limitato, dalla foliazione, oltre che dalla miriade di personaggi coinvolti, hanno consentito all’archetipo recchioniano di far emergere solo la patina pop e ammiccante, impedendone la successiva discesa lungo il crinale qualitativo.

L’adagio di cui sopra viene in questa storia applicato al quadrato: al di là del tema BDSM che già impregna la prima parte della vicenda, il cliffhanger ci mostra una Lucille che (per dirla alla Camilleri) è una stampa e una figura con Mater Morbi, e il resto della storia vede sì Dylan invischiato nelle conseguenza di un dilemma etico che raramente ha subìto nel suo pur turbolento vissuto, ma che per il resto – anche al netto dell’opera di Roi – riporta con relativa facilità a questo punto d’origine.

Mater Morbi

Mater Morbi è LA vetta di originalità di Recchioni – in generale, e in particolare per Dylan Dog – per il semplice fatto che nasce da una sua personalissima esperienza di vita. John Doe è invece il frutto di un mix di intuizione, passione, tecnica, oltre che risultato della collaborazione con il compianto Lorenzo Bartoli. Recchioni mostra in genere di non allontanarsi mai troppo da queste due direttrici, e in questo caso trova, più o meno consciamente, l’occasione di intrecciarle.

Al di là di ciò, due sono gli elementi che inficiano maggiormente il risultato finale.

Da un lato un problema di ritmo: Lucille è una sorta di “vampiro psichico” di origine aliena (roba comunque già vista), che rimane vittima della propria natura e dei propri poteri a seguito del twist (inevitabile) innescato da Dylan. Tale snodo avviene però troppo in prossimità del finale, producendo il classico “effetto fisarmonica” – ossia tempi troppo allungati prima, e troppo concentrati poi – che denotano una non compiuta capacità di gestione delle tavole a disposizione, cosa che non ci si aspetterebbe da un autore del calibro e dell’esperienza di Recchioni.

In secondo luogo – e cosa ben più importante – Recchioni confonde i concetti di empatia e compassione. L’ em-patheia è fondamentalmente la capacità sentire su di sé il medesimo stato d’animo, positivo o negativo che sia, provato da un’altra persona. È una sorta di sdoppiamento della prospettiva, il vedere una stessa dinamica relazionale da entrambi i due costituenti punti di vista. È un atteggiamento fondamentalmente passivo, e in linea di principio è quanto Dylan prova su di sé quando accetta il ruolo di “agnello sacrificale” per salvare l’umanità.

Questa metafora cristologica – pur senza voler per forza tirare in ballo in toto il Figlio di Dio – evolve però nel momento in cui, dopo tutta una sequenza di fan-service che chiama in causa Bree, Lillie, Mana Cerace, gli zombi, ma anche la dama in nero, arriva in scena il “vero e unico” agnello sacrificale che la storia editoriale del personaggio ricordi, vale a dire Johnny Freak. È qui che Dylan, chiamato ancora una volta da Lucille ad accogliere la sofferenza come un recipiente qualsiasi, compie il salto della fede e abbraccia scientemente tale sofferenza: cum + paschor, com-passione, una forma di tenerezza che rende il soggetto dimentico di sé e dei suoi dolori, per proiettarsi in maniera completa e disinteressata verso l’altro, quel “farsi uno con l’altro” che rappresenta il vertice dell’idea aristotelica dell’essere umano quale “animale relazionale”. Empatia e compassione condividono in parte la radice filologica, ma tra i due concetti c’è un abisso che – questo sì – forse Dylan supera per la prima volta nella sua vita.

Come detto, se messa in questi termini la figura di Cristo sulla croce diventa un richiamo anche troppo scontato, e di certo ciò discende da dinamiche educative alla fin fine sempre di stampo cattolico: in realtà compatire va ben oltre il (cristiano, ma non solo) senso di pietire, per come lo si intende comunemente, e da qui non è difficile cadere in contraddizione.

In definitiva, Dylan compie (senza che l’autore lo sappia) un più profondo percorso di maturazione, risalendo da un baratro stavolta davvero spaventoso per ritrovarsi contemporaneamente passibile di errore (come uomo) e ciborio attorno al pane dell’innocenza (come bambino). Nonostante tutto, è un risultato non da poco.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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