Il Dylan Dog di Roberto Recchioni

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Piccola doverosa premessa

Per rispetto e doverosa onestà intellettuale dobbiamo ammettere che su questi lidi non siamo mai stati troppo entusiasti delle scelte narrative proposte da Roberto Recchioni nelle sue opere. Abbiamo sempre stimato il professionista ma pur leggendo (quasi) tutto quello che ha prodotto nel corso degli anni, non siamo mai riusciti ad apprezzare in toto le sue opere… forse, semplicemente, perché più distanti di quanto immaginassimo dai nostri gusti.
Non possiamo tuttavia esimerci di sottolineare, ancora una volta, il piglio innovativo che i suoi lavori hanno rappresentato nel panorama fumettistico seriale italiano dei primi anni 2000 per quanto, effettivamente, il suo Dylan Dog non lo abbiamo mai troppo amato, né tantomeno elogiato.

Per questo motivo oggi, a conclusione del suo ciclo su questo personaggio, vogliamo provare a descrivere lo stato in cui versava la testata prima della sua gestione, per poi provare a riassumere quelli che sono gli aspetti del suo Dylan Dog che in questi anni ci hanno colpito e convinto maggiormente. Quegli aspetti insomma che rimarranno validi a prescindere dal nuovo corso dylaniato e che Roberto Recchioni ha avuto l’audacia di proporre per una figura tanto complessa e strutturata come l’indagatore dell’incubo.

Il Dylan Dog prima di Roberto Recchioni

Col Dylan Dog n.437 “…ma con un lamento” si conclude, con un categorico reset, la gestione dylandoghiana di Roberto Recchioni. Pochi giorni fa, a completamento di questo processo, vi è stato l’annuncio della nomina di Barbara Baraldi quale nuova curatrice del personaggio.

Prima però di tracciare un resoconto di quella che è stata la gestione di Roberto Recchioni, troviamo doveroso capire quale Dylan questi si sia trovato a gestire, perché riteniamo fondamentale comprendere l’environment nel quale si è ritrovato ad agire.

Recchioni prende infatti il posto di Giovanni Gualdoni, che solo tre anni prima aveva sostituito alla cura della testata il mai troppo compianto (editorialmente parlando) Mauro Marcheselli. Un breve anche se sommario excursus quindi su quello che era diventato l’indagatore dell’incubo in quegli anni ci sembra necessario per comprendere, capire e valutare le svolte proposte da Rrobe negli ultimi anni.

Venire fuori dalla palude

Il Dylan Dog che Recchioni prende in consegna non è più quello poetico e generazionale ideato da Tiziano Sclavi, bensì un Dylan più complesso e strutturato. Negli ultimi 150 numeri della serie i diversi autori e le diverse fasi artistiche avevano prodotto albi talvolta efficaci ed in linea con i propositi del suo ideatore, ma anche tanti e troppi scivoloni.

Lo abbiamo sempre detto: la forte caratterizzazione data da Tiziano Sclavi al suo personaggio lascia un’apparente libertà, ma consegna agli autori anche una materia ostica e delicata con cui confrontarsi.
Se alcuni sono riusciti a seguire la linea tracciata da Tiz, altri si sono persi in manierismi o banalità che ne hanno frainteso il potenziale. A cavallo del numero 300, questi meccanismi avevano prodotto un fastidioso cortocircuito dal quale sembrava fosse ormai impossibile venire fuori.

Le opere pubblicate in quel periodo su Dylan Dog riuscivano nell’improbo risultato di variare tra quelle piatte e caratterizzate da una prevedibilità sconcertante (n.305 “Il museo del crimine”) e thriller scialbi e monotoni (n.309 “L’autopsia”) o – ancora – eventi falliti, come l’esordio così così di Angelo Stano alla sceneggiatura (n.315 “La legione degli scheletri”) e passi – quasi – falsi di autori da sempre efficaci come Paola Barbato che, pur essendo una delle autrici più attente alle caratteristiche e alle sfumature del personaggio, purtroppo si perdeva un po’ nel n.313 “Il crollo” che comunque rappresentava, nel panorama complessivo, quasi una boccata d’aria fresca.

Una sopravvivenza stentata della testata, quindi, che proponeva ormai ogni mese storie dimenticabili e tematiche già affrontate riproposte senza alcun valore aggiunto o, peggio, avventure in cui Dylan era presente quasi per caso e del tutto inutile ai fini della narrativa. 

In questo periodo si possono contare sulle dita di una mano gli albi che, in un modo o nell’altro, ci avevano presentato un Dylan degno di essere letto. Forse il n.286 “Programma di rieducazione”, il n.307 “L’assassino della porta accanto” o il n.311 “Il giudizio del corvo” proprio di Recchioni.

C’erano poi autori che, anche se con risultati altalenanti, provavano a dare una scossa e una visione più personale delle tematiche e delle ambientazioni care al personaggio. Ne sono un buon esempio, come detto, i lavori di Paola Barbato, o alcune storie di Giovanni di Gregorio e lo stile di Andrea Cavalletto. Ma anche questi, con risultati altalenanti, non sono mai riusciti ad imprimere una svolta decisa al personaggio.

Se di contro, invece, l’unica storia di Giovanni Gualdoni che presentava quel minimo di carattere e passione per l’indagatore era l’appena sufficiente n.316 “Blacky”, risulta palese quanto la stagnazione del personaggio fosse profonda e comatosa.

L’arrivo di Recchioni in questo miasma ed il suo progetto di perestroika & glasnost non vanno visti quindi solo come una manifestazione decisa del carattere dell’autore, ma anche come una necessità ormai irrinunciabile per la testata, che in quella fase aveva estremo bisogno del rinnovamento che l’outsider Recchioni poteva portare con il suo stile.

Non a caso, l’annuncio dell’avvicendamento Gualdoni/Recchioni aveva prodotto un rinnovato e fervente hype tra i lettori e gli addetti ai lavori: tutti curiosi, ma soprattutto sollevati, all’idea di una svolta che – concordiamo – era divenuta ormai necessaria.

Di cosa non abbia funzionato ne abbiamo già parlato.
Vediamo adesso invece quali sono stati gli aspetti positivi.

Perestroika & glasnost recchioniana

La gestione di Recchioni ha inizio nel settembre 2013 con il n.325, dal significativo titolo “Una nuova vita”. In realtà l’albo si può considerare una sorta di falsa partenza: sia perché l’opera non è a firma di Recchioni ma vede Carlo Ambrosini come autore unico, sia perché si presenta come una storia facilmente dimenticabile, sulla falsariga di quanto proposto fino ad allora già sotto la gestione di Gualdoni.

Il vero e proprio start della gestione di Recchioni lo si ha invece precisamente un anno dopo, con il n.337 “Spazio profondo”: qui, finalmente, Recchioni ha la libertà e l’audacia di dare il via al suo Dylan con un racconto di fantascienza utopico e splatter che diviene un nuovo numero zero. Ma più che un punto di partenza è la presentazione di un mondo, quello che Recchioni è pronto a presentare ai lettori: una sceneggiatura veloce, carica d’azione, caratterizzata da numerose citazioni, riferimenti cinematografici, ammiccamenti ed un piglio estremamente dinamico per quanto concerne inquadrature, vignette e lettura. 

Da qui in poi, a più riprese, il progetto di Recchioni procederà spedito fra incubi, comete, matrimoni, pensionamenti e realtà alternative fino al reset conclusosi (come dicevamo all’inizio) con il n.437 “…ma con un lamento”.

Il terzo millennio: Dylan 2.0

Il mondo dylaniato, sin dalla sua nascita nel 1986, è rimasto quasi completamente cristallizzato: l’idea di un mondo invariabile e immutabile attorno all’eroe non ha rappresentato alcun tipo di problema per oltre vent’anni. Le tematiche affrontate, la narrazione atipica del personaggio e il campo d’azione dello stesso non avevano mai richiesto un’eccessiva attualizzazione della serie. Nel nuovo millennio invece, con il cambio di tematiche e autori e con l’esaurirsi del fascino di quel filone horror splatter caro a Sclavi, l’immobilità temporale del personaggio rischiava di creare un’asincronia con il lettore che avrebbe potuto compromettere la suspension of disbelief, fattore fondamentale nelle storie dell’indagatore. Le fantasiose giustificazioni narrative utili a conservare Dylan nella sua bolla anni ‘80 erano diventate infatti fin troppo artificiose, sembravano ormai più un’ostinata presa di posizione che una necessità stilistica o identitaria del personaggio.

Ed ecco che Recchioni, a piccoli passi (talvolta anche confusi), presenta il Dylan Dog 2.0 che – pur con romantica idiosincrasia – si approccia a telefonia mobile, social network, assistenti vocali, computer e rete Internet. La prima spallata di Recchioni ai tabù del personaggio è stata data.

A conti fatti, tale svolta non ha ucciso il personaggio, non ne ha tradito gli stilemi, il pubblico se n’è fatto una ragione e la casa editrice ha proposto la testata Old Boy per coccolare comunque i più nostalgici.

Era necessario? Era troppo difficile? Era un atto di lesa maestà? Era così facile? No!
Semplicemente era uno sporco lavoro, e qualcuno doveva pur farlo.

Nuovi comprimari

Per oltre 25 anni Dylan è stato affiancato solo da una manciata di comprimari. Escludendo Madame Maria Trelkovski e Lord H. G. Wells, comparsi saltuariamente, e Abel Cedric Jenkins, poco più che una macchietta, gli unici due personaggi stabili sono sempre stati l’Ispettore Bloch e Groucho (oltre alla Morte, ma questa è un’altra questione).
Mai nessun autore o curatore aveva avuto l’ardire di scardinare questa sacra trinità e di riscrivere quindi l’ecosistema dylaniato ideato da Sclavi.

Tale immobilismo, come visto in precedenza, aveva portato al riciclo infinito delle stesse tematiche e situazioni che possiamo banalizzare in:
– Dylan ha un nuovo caso
– Chiede informazioni/aiuto a Bloch
– Indaga
– Groucho lo salva lanciandogli la pistola
– Bloch sistema le questioni burocratiche e ci mette una pezza

 

Roberto Recchioni, deciso a rivedere la struttura del personaggio per proiettarlo verso nuovi schemi postmoderni, decide che è tempo per Bloch di andare in pensione (n.338 “Mai più, ispettore Bloch”) ed ecco che al posto della paterna figura bisognosa di antiemetici Recchioni inserisce Tyron Carpenter e Rania Rakim.

Tyron Carpenter, ispettore di polizia di Scotland Yard successore di Bloch, non ha l’accondiscendenza paterna di Bloch nei confronti di Dylan e la serie può arricchirsi di nuove situazioni, più realistiche, nelle relazioni fra il controverso indagatore e la polizia. Invero, ad esclusione di rari exploit, il personaggio non riuscirà mai ad andare oltre lo stereotipo del duro poliziotto integerrimo, instaurando con Dylan un banale rapporto di antitesi machista che poco ha aggiunto alla serie.

Discorso diverso, invece, per la figura del sergente Rania Rakim.
Finalmente – e con coraggio – una donna ha assunto il ruolo di comprimario e di presenza ricorrente nella serie. L’affascinante poliziotta dimostra un forte carattere e, a più riprese, paventa sfumature e possibilità di approfondimento che avrebbero potuto renderla un ottimo personaggio. A conferma della forza e del valore della figura di Rania va aggiunto che, a conti fatti, la sua scomparsa nel n.436 “Non con fragore…” ha rappresentato uno dei passaggi più emozionanti del ciclo conclusivo di questa fase recchioniana.

A Recchioni va quindi dato il merito di aver ideato ed inserito con intelligenza due figure utili a smuovere l’universo dylaniato. Non solo, il colore della pelle di Tyron e la religione di Rania accentuano la voglia di ampliare i discorsi della testata, fino ad allora cristallizzati, in continuità con le caratteristiche care al personaggio.

Purtroppo, come appena accennato, ad entrambi i personaggi è stato dato troppo poco spazio per poter ottenere sfumature e racconti che li rendessero efficaci ed iconici quanto Bloch e Groucho, ma questo è un aspetto negativo, quindi non lo approfondiremo in questa sede; per lo stesso motivo non faremo menzione di John Ghost.

Archi narrativi, continuity e miniserie

Dylan Dog, fra i personaggi Bonelli, è forse quello al quale meno di tutti appartiene il senso di continuity: le sue storie sono sempre state narrate per episodi del tutto indipendenti tra loro.
Certo, ci sono stati talvolta rimandi e riferimenti tra gli albi, ritorni, situazioni e luoghi consolidati e ricorrenti, ma la continuity dylaniata, fino all’avvento di Recchioni, non era mai stata tentata né presa in considerazione.

Recchioni aveva già avuto l’intuizione su John Doe, diviso per stagioni, conscio di una nuova tendenza narrativa, ereditata dalla rinnovata attenzione e qualità dei serial televisivi che in quegli anni stavano vivendo una nuova primavera.
L’idea di portarla anche su Dylan Dog non ha mai funzionato alla perfezione: c’è sempre stato un qualche intoppo tecnico che ne ha compromesso la fruibilità, ma è innegabile che l’idea fosse utile a dare forza e corpo ad una dinamicità del personaggio che, almeno nelle intenzioni, avrebbe potuto esprimere in maniera più strutturata le idee del suo autore. Massima espressione ne è stata la miniserie pulp Dylan 666 che, seppure nella sua brevità, ha divertito e affascinato con il suo piglio alla what if. Di base, questo stratagemma ha permesso a Recchioni di esplorare, in più occasioni, un Dylan postmoderno che come un novello Archie Fergusson si presenta in diverse versioni e sfumature al lettore che ne vive le infinite possibilità.

Nuovi disegnatori

A cominciare da Massimo Carnevale, vera e propria star, i disegnatori che hanno fatto il loro esordio sulle pagine di Dylan Dog sotto la gestione di Recchioni sono stati numerosi e tutti di indiscusso talento. La cura di Rrobe per l’aspetto prettamente grafico della serie si è sentito sin da subito. Una serie di nuovi arrivi che non hanno stravolto il personaggio ma anzi lo hanno arricchito di qualità.

Pur conservando l’apporto di icone storiche quali Bruno Brindisi, Giovanni Freghieri, Giampiero Casertano e Corrado Roi, abbiamo potuto godere degli ottimi lavori di artisti quali Gigi Cavenago, Luca Casalanguida, Giorgio Pontrelli, Emiliano Mammucari e Werther dell’Edera, per citarne solo alcuni.

Ciascuno col suo stile, ciascuno con indubbio talento, sono riusciti a donare a Dylan una forza ed un carattere attuale ed in linea con la sua storia, spesso più di quanto sia riuscita a fare la sceneggiatura.

La rinnovata attenzione mediatica

Recchioni aveva dimostrato anni prima la sua capacità di affermarsi sulle diverse piattaforme – sia social che blog – con carattere e arguzia: negli anni era riuscito a creare un movimento di appassionati e lettori che si sono rianimati e sono tornati ad interessarsi di fumetti dopo un periodo di buio, caratterizzato dal declino delle piattaforme di forum sparse un po’ ovunque.

In particolare, i media scelti da Recchioni per comunicare con il (suo) pubblico erano fruiti in larga parte da un pubblico più giovane di quello che fino ad allora aveva caratterizzato lo zoccolo duro dei lettori di Dylan Dog.

Questa sua verve da tastiera, la vena leggermente polemica e la tendenza ad esporsi in prima persona hanno avuto due effetti contrari: il primo è stato quello di riaccendere le luci su di un personaggio che ormai viaggiava quasi in sordina, relegato ai margini della discussione generale sul fumetto; il secondo è stato quello di porre al centro del discorso, troppo spesso, l’autore e non il personaggio.

Se il primo effetto ha positivamente riportato l’attenzione sul personaggio Bonelli che ne ha – sopratutto in una prima fase – beneficiato, il secondo ha distratto non poco e forse anche sminuito il valore di quello che si stava facendo, dando spazio a dubbi sulla qualità stessa di quel valore.

Di certo quello che rimane è la forza di Recchioni nel proporre e stimolare un discorso ed un ragionamento sul personaggio, riuscendo ad incontrare direttamente i suoi lettori come mai successo prima d’allora.

Da Roberto Recchioni a Barbara Baraldi

Come visto, quindi, va riconosciuto a Roberto Recchioni il coraggio e la forza profusa nel tentativo (comunque riuscito) di tirar fuori Dylan Dog dalle sabbie mobili e di proiettarlo nel nuovo millennio: per quanto, come detto, spesso il risultato non ci abbia entusiasmato ci siamo comunque divertiti e interessati a quanto prodotto. Adesso toccherà a Barbara Baraldi fare tesoro di quanto di buono è stato prodotto, pur riportando le tematiche e le ambientazioni del personaggio su binari più classici.

Se te lo sei perso: Metti alla prova la tua conoscenza sull’Indagatore dell’Incubo rispondendo a queste dieci domande sul personaggio creato da Tiziano Sclavi: Il Quiz su Dylan Dog

Pasquale Laricchia

Cominciai a correre. Finché i muscoli non mi bruciarono e le vene non pomparono acido da batteria. Poi continuai a correre.

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