È strano come, a volte, non si riesca a realizzare quanto una storia è preziosa per noi fino a che non se ne parla. È lì, è sempre stata lì da quando la si è conosciuta e, quindi, perché parlarne: è normale che sia lì.
Così, quando di recente mi sono trovato a parlare di due tra i miei manga preferiti di sempre con degli amici, mi sono reso conto che di uno non avevo mai scritto.
Di un mangaka particolare come Satoshi Mizukami avevo cantato le lodi di Samidare (due volte: la precedente qui), avevo sbrodolato dietro a Creature Arcane, ma di Spirit Circle fino ad ora non avevo scritto una riga.
Certo, guardando al passato uno dei motivi è che, nel maturare, il giovane Mizukami è diventato sempre meno “esplosivo” e “sbracato” nei suoi incipit. Il primo volume di Spirit Circle era più controllato del primo di Creature Arcane che, a sua volta, non eguagliava la divertita follia dell’esordio a base di lucertole parlanti, universitari musoni e disillusi ed energiche liceali dalla volontà genocida che Samidare propose al suo pubblico.
Spirit Circle, insomma, delle tre opere è quella che iniziava in maniera più normale.
Cioè: normale quanto può essere normale un “normale studente giapponese”, Futa Okeya, che nel riuscire ad attaccare bottone con la altezzosa “studente trasferita” Koko Ishigami vede il di lei spirito guardiano East e scopre che tra loro due c’è un trascorso di reincarnazioni non esattamente tranquille, per le quali la giovane Koko è intenzionata ad ucciderlo ed estinguere la sua anima.
Quel tipo di normalità, insomma.
Anche il disegno di Mizukami è più “normale” in Spirit Circle: l’approssimazione che lo avvicinava a Kazuhiro “Ushio e Tora” Fujita è un ricordo del passato ed i sette anni che separano Spirit Circle da Samidare si vedono tutti.
Le anatomie, pur restando estremamente semplificate, non hanno più incertezze e la varietà fisiognomica dei personaggi aumenta rendendoli tutti immediatamente caratterizzati, con particolare menzione per le figure femminili che sono, per la prima volta, realmente “belle”, quasi sensuali.
Di contro, appunto, complice anche un soggetto che si presta meno alla spettacolarizzazione “shonen”, scene squilibrate (in tutti i sensi) ed esplosive come quelle di Samidare o Creature Arcane, latitano completamente.
Siamo di fronte ad un manga molto più “sussurrato” rispetto ai suoi predecessori e questo sicuramente aveva reso il mio giudizio più tiepido all’attacco.
Ma non sulla lunga distanza.
In termini di contenuto, Spirit Circle è potente e privo di fronzoli o traccheggiamenti.
La storia di Futa e Koko diventa immediatamente la storia delle loro reincarnazioni distribuite lungo un circolo (si badi bene: non “arco”, “circolo”) temporale in cui una maledetta noncuranza iniziale ha fatto sì che l’esistenza di uno causasse dolore e morte all’altro, a volte involontariamente, a volte con precisa coscienza.
E ciononostante ogni “vita” è stata vissuta come unica, magari condizionata da un immediato sentimento di antipatia, ma senza essere manovrati come burattini vincolati a chissà quale destino. Tanto che Futa e Koko, dovendo convivere come compagni di classe ed essendo due bravi ragazzi, non riescono a non trovarsi simpatici e a non apprezzarsi a vicenda.
Parlando vengono a scoprire dettagli delle incarnazioni passate che uno solo dei due, limitato nel suo punto di vista, non poteva sapere: aiutati anche dai due spiriti East e Run e dagli altri compagni e conoscenti, che risultano essere a loro volta anime incontrate nelle vite precedenti e con cui i rapporti sono stati sempre diversi e sempre uguali.
Senza citarlo mai esplicitamente, ma solo narrandolo, Satoshi Mizukami fa emergere – da quello che è un racconto fantastico – il valore immenso del confronto anche tra coloro che hanno arrecato dolore e coloro che lo hanno subìto.
E dal confronto fa emergere il valore del perdono come unico modo per rompere una spirale di dolore.
Un valore che non si crea sicuramente né in maniera immediata né facile (il perdono non è un titolo finanziario, a quanto sembra) ma richiede quasi sempre un accumulo di ferite, di insofferenza, di vero e proprio odio. Di tentare il reciproco annientamento in quanto esito inevitabile dei nostri limiti e delle costrizioni sociali che ci vincolano e, infine, di realizzare quanto il dolore accumulato sia privo di senso ed essere pronti ad aggrapparsi ad un evento salvifico scrollandosi di dosso tutta quella inutile zavorra.
Una narrazione quanto mai adeguata alla follia in cui siamo immersi.