Lubin è un ragazzo di ventisei anni con un sogno: vivere della sua passione di acrobata.
Con i suoi amici ha infatti una piccola compagnia teatrale e, tra esercizi e prove, spera di far diventare questa passione il fulcro della sua vita. Nel frattempo si mantiene con un lavoro precario che poco gli interessa e frequenta la bella Gabrielle.
Un ragazzo come tanti, con una vita piacevole, appassionata e colma di sogni, amici, amori e passioni.
Almeno fino a quando non si rende conto di svegliarsi una volta ogni due giorni realizzando che un’altra personalità, a giorni alterni, sta vivendo la sua vita.
Timothé Le Boucher, classe ’88, sin dal suo esordio nel 2011 con “Skins Party” (inedito in italia) ha deciso di narrare la sua generazione, tra feste, tormenti, bivi e difficoltà di crescere. Nel 2017, con il suo terzo graphic novel, questo I giorni che scompaiono, arriva finalmente sugli scaffali italiani grazie a Bao Publishing continuando un percorso narrativo che proseguirà in “Lo spogliatoio” (Comicout, 2020).
La storia di Lubin e del suo doppio, comincia come un interessante gioco a metà tra i turbamenti di Jàkov Petròvič Goljàdkin e quelli di Tyler Durden. L’avvincente alternarsi dei giorni e delle due personalità del protagonista incuriosiscono il lettore con tutti quei piccoli disagi che ne conseguono e che l’autore è bravo a rendere centrali. Ne viene fuori così una prima parte del racconto curiosa e piacevole.
Dopo poco, la seconda personalità comincia a prendere sempre più spazio e quella che sembrava una curiosa avventura si palesa come metafora spietata di ciò che significa oggi crescere e diventare ingranaggio attivo della società.
La necessità di “crescere” è parte di un percorso universale comune a tutte le generazioni, quel passaggio obbligato della società che chiede, talvolta, di fare una scelta netta tra il perseverare nella realizzazione dei propri sogni, spinti dalle proprie passioni o invece di allinearsi ad un’idea di produttività per diventare ingranaggio attivo della società contemporanea.
In Fight Club, Chuck Palahniuk sceglieva di non scegliere e di distruggere il sistema; Timothé Le Boucher, come Dostoevskij, sceglie invece di uccidere Lubin e i suoi sogni, e lo fa con una escalation rapida ed emozionante. Il lettore ha infatti il solo punto di vista del protagonista, non del suo doppio, ed è portato così naturalmente a vivere questa dicotomia identificando Lubin come la vittima. Il veder disgregarsi del suo mondo, dei suoi amori, delle sue passioni, la rinuncia di Lubin a tutto ciò che ama, in una spirale sempre più rapida, lasciano un profondo senso di disagio e amarezza. Una condizione spiazzante che costringe il lettore a rivivere in prima persona la metafora, subendola.
Il ritmo della narrazione, la forza di alcuni personaggi come l’amico Leandre, Tamara, lo stesso Lubin e le scelte cromatiche ponderate a seconda delle situazioni, confluisco tutte assieme, efficacemente, nella direzione prefissata dall’autore: scuotere ed emozionare il lettore ricordandogli quanto è difficile e doloroso rinunciare ai sogni dell’adolescenza per inquadrarsi nella società.
Un lavoro ottimo quindi, quello realizzato da Timothé Le Boucher, che riesce a esprimere con forza, nonostante la leggerezza del suo tratto, un quadro preciso del disagio generazionale, il disagio della “necessità” di crescere e delle conseguenze emotive che ne derivano.