Per una volta non parlerò di una BD scoperta sulle pagine dei settimanali Eura negli anni Ottanta oppure direttamente in Francia nei decenni successivi: devo infatti confessare che, pur avendo a suo tempo amato molto il western intimista Buddy Longway, ero completamente all’oscuro delle altre opere prodotte dal suo autore, Derib (pseudonimo dello sceneggiatore e disegnatore svizzero Claude De Ribaupierre)… o meglio, lo ero fino alla pubblicazione di questa sua serie molto particolare nei numeri 58-61 della collana Gli albi del West, apparsa nel 2018 come collaterale della Gazzetta dello Sport a cura di Fabio Licari.
Si tratta di un fumetto composto da due cicli ben distinti, rispettivamente di tre e quattro albi. Il primo ciclo è stato pubblicato tra il 1983 e il 1985 presso la casa editrice Lombard con il titolo Celui qui est né deux fois (Colui che è nato due volte): ambientato nel XIX secolo tra i Sioux, mostra – con la consueta delicatezza dell’autore – le peripezie di un bambino dagli strani poteri sciamanici e la sua crescita tra riti iniziatici e misticismo, in particolare la “danza del sole” resa celebre da Richard Harris nel film Un uomo chiamato cavallo. I testi sono ridotti all’osso, le immagini sono evocative e le ricostruzioni degli usi indiani sono puntuali senza tuttavia scivolare nel puro documentario etnologico: certo, letta ai giorni nostri, questa trilogia iniziale potrebbe sembrare un tantino edulcorata e, probabilmente, troppo “buonista”… ma quanto affascinante, quanto poetica!
Il primo ciclo, compiuto in sé stesso, era stato pubblicato in una particolare collezione chiamata “Histoires et légendes”, insieme alle opere di altri autori (tra cui il Van Hamme degli esordi e Cosey con il suo Alla ricerca di Peter Pan): nel 1987, sempre per la stessa collezione, Derib disegnò – stavolta su testi di Christian Godard – la raccolta di storie brevi L’homme qui croyait à la Californie per poi sorprendere i suoi lettori, l’anno successivo, con l’albo American buffalos, prima puntata della quadrilogia intitolata appunto Red Road ambientata un secolo dopo e incentrata su Amos Lambert, un discendente del Sioux protagonista della trilogia.
Si trattava, a dire il vero, di un albo un po’ interlocutorio (e difatti i tre successivi vennero pubblicati soltanto tra il 1993 e il 1998), basato sulla tematica già vista e rivista della difficile integrazione tra i nativi americani rimasti nelle riserve e la popolazione “civilizzata”. Amos scappa da una disastrosa situazione familiare e cerca di emanciparsi partecipando alle gare nei rodei ma rischierà – come già successo a suo padre e a molti suoi amici – di rifugiarsi nell’alcolismo, nella droga o nella ribellione contro il governo e le forze dell’ordine. Riesce però a tenere duro, specialmente grazie all’aiuto di Erik, un enigmatico personaggio che lo aiuterà a seguire il percorso iniziatico verso il Wakan: un percorso che renderà Amos pienamente cosciente dei poteri tramandatigli dal suo antenato per poi guidare, nel finale della saga, una marcia fino a Wounded Knee, luogo simbolo dello sterminio dei nativi americani.
Una serie particolare, dicevo, ristampata più volte integralmente in Francia ma rimasta stranamente inedita in Italia, fino appunto al suo meritorio inserimento nel collaterale della Gazzetta: e anche se la quadrilogia conclusiva – pur interessante – rischia di adagiarsi su alcuni luoghi comuni, la trilogia iniziale merita senz’altro di essere letta, grazie in particolare alla potenza delle immagini nelle tavole mute, spesso sviluppate in suggestive ed elaborate splash pages. Una vera gioia per gli occhi.
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