
All’interno delle dinamiche di genere (inteso non in senso anagrafico ma narratologico) forse la più consolidata è prevedibile è quella dei cicli di vita dei sottogeneri.
Il sottogenere comincia come “deviazione” – a volte persino “negazione” – da quello che è il canone, per opera di pochi innovatori. Al suo esordio incontra il favore di una nicchia di appassionati sufficientemente dediti e combattivi da tenerlo in vita (si pensi alle 100 declinazioni del “Metal”, ognuna orgogliosamente mantenuta da decenni da vere e proprie “sette” di appassionati), più raramente incontra il favore del grande pubblico e, come si suol dire “esplode”.
Di questo termine normalmente si prende il significato positivo: la deflagrazione che investe e abbaglia e spazza via la concorrenza.
Meno frequentemente si considera l’aspetto negativo: le schegge, la confusione ed il fatto che tanta potenza si disperda in entropia e caos e, quando alla fine il fumo si disperde, resta un cratere vuoto.
Un sottogenere esploso è un sottogenere che si sparge con estrema rapidità e moltiplica le sue parti senza ordine, sotto la spinta dei (pochi) creativi, dei (tanti) volenterosi epigoni e dei (tantissimi) approfittatori che non vedono l’ora di partecipare all’abboffata.
Si arriva quindi rapidamente alla terza fase, il plateau: si moltiplicano le opere ma non si percepisce più alcun valore aggiunto, anzi, comincia ad insinuarsi lo sfottò degli aspetti più formulaici del genere (al giorno d’oggi si direbbe “la memeficazione”) che sono mutati da paradigma di inventiva a prassi da copisti. Comincia quindi il declino.
In Italia abbiamo diversi esempi di questo percorso, la valanga di Spaghetti Western che seguono l’esempio di Sergio Leone e poi di Enzo Barboni (E. B. Clutcher) e che rapidamente si riducono ad una sfilza di one-liner (prima ancora che il concetto di “one-liner” fosse formalizzato) appiccicati su una trama ciclostilata che prevede di chiudere con un duello finale tra due ceffi sudati (di cui uno percettibilmente più bello), il “polizziottesco” che fa più o meno la stessa cosa ma senza cavalli e con il duello che diventa uno scontro a fuoco disordinato in cui non necessariamente vince il ceffo sudato più bello, la “commedia all’italiana” che parte come feroce satira a cui si sovrappone un bel paio di tette e natiche e finisce come un bel paio di tette e natiche a cui si sovrappone un paio di tette e natiche altrettanto bello.

Tutto questo sproloquio, che fa pensare che noi redattori di uBCMagazine si venga pagati a righe (spoiler: non ci paga nessuno, è semplice masochismo), per arrivare al nostro caro amico Isekai.
Come la cara Diana, compagna del BVZM e cintura nera di preterizione, non vi starò a dire che l’Isekai è quel genere che prende un normale studente/impiegato/recluso/vattelapesca giapponese e lo sbatte con un pretesto (nel 90% dei casi il decesso causa investimento da furgoncino) in un mondo fantasy di cui lui è, quasi sempre senza particolare merito, “il predestinato”.
E non vi starò a ripetere (eddai!) l’opinione delle malelingue per cui la somma di 100% escapismo + protagonista maschile + varietà esotica di co-protagoniste femminili sia alla base del suo enorme successo.
Nè andrò a dire quanto la sua “riduzione a formula” unita al fatto che sembra che in Giappone non sia quasi più possibile concepire un’opera fantasy non “isekaizzata”, abbia rotto.
Perché l’ho già fatto.
Però di recente mi sono trovato a dover considerare le cose con obiettività: alla fine è tutta una questione statistica. Se, come dice una battuta sarcastica, data una qualsiasi popolazione l’intelligenza è una costante, apparentemente per i sottogeneri questo vale per la creatività. E’ più facile trovare le gemme di un sottogenere ai suoi esordi che, invece, al suo punto di massima espansione, quando devono sgomitare tra le opere medie e mediocri.
La fama ed il successo commerciale non cancellano, quindi, bravi autori che scelgono il genere per passione e non per mero calcolo commerciale, che quindi lo conoscono, ne conoscono le regole ed i limiti e vogliono narrare nella cornice da questi dettata. Semplicemente rendono statisticamente più improbabile trovarli.

Fortunatamente accade anche che, quando li si trova, il successo del sottogenere diventi il loro successo: questo è quello che è capitato a Shangri-la Frontier, serie di romanzi brevi scritta da Katarina e trasposti in manga dall’ottimo Ryosuke Fuji.
Quello che bisogna dire di Shangri-la Frontier è che, come tutte le opere che nel momento di saturazione di un sottogenere spiccano e riescono ancora a ricavarsi uno spazio di notorietà, è un isekai “sui generis”, al punto che si dovrebbe quasi dubitare della sua appartenenza, e contemporaneamente è integralista nel gestire e far funzionare le “formule”.
L’astuzia del soggetto è infatti di porre al centro della narrazione il più abusato dei protagonisti: il “normale studente giapponese” tendente alla reclusione, amante dei videogiochi, nella più abusata delle varianti di ambientazione “pseudo-contemporanea”, il futuro prossimo in cui le interfacce immersive consentono di “vivere il videogioco”.
Rispetto però a Sword Art Online, che di fatto praticamente da solo rilanciò l’isekai del nuovo millennio definendone molte delle formule che ho ampiamente deprecato, in questo caso nessuna misteriosa congiura imprigiona la psiche dei videogiocatori nel gioco ed imposta la regola per cui “se muori nel gioco muori nella vita vera”.
Shangri-la Frontier è solo un gioco fantasy immersivo multigiocatore che ha rapidamente scalato le classifiche di gradimento in virtù di una cura innegabile, al punto di essere inserito nella categoria dei “giochi divini”: Kami-ge (Kami: particella di “divino” e gemu: pronuncia giapponese dell’inglese “game”).
Nessuno ci rimane intrappolato, i giocatori lo acquistano, si creano il loro personaggio ed entrano ed escono dal gioco quando vogliono e come vogliono.
Ed inizialmente il protagonista, Rakuro Hizutome, nome di gioco Sunraku, è ben dubbioso in merito ad entrarci.
E’ infatti un bizzarro videogiocatore compulsivo che trae massima soddisfazione dal giocare “giochi di merda” (citazione letterale): più il gioco è fallato, approssimativo, incoerente e immotivatamente ostico e maggiore è la sua soddisfazione agonistica nel riuscire a padroneggiarlo, finirlo ed, infine, accantonarlo con la frase: “era veramente una merda”.
Al punto di essere conosciuto nella ristretta ma vivace community dei videogiocatori integralisti come Kusoge Hunter (gemu: pronuncia giapponese dell’inglese “game” e Kuso: particella di… quella roba lì).

Alla fine decide però di entrare comunque, convinto dalla sua negoziante di fiducia a “prendersi una pausa” dalla lotta senza quartiere contro la pessima programmazione. Non solo quello che trova va al di là delle sue più rosee aspettative, ma la particolare build decisa per il personaggio, privilegiando l’attributo “fortuna” sugli altri, gli fa incontrare un mostro unico: un avversario di rarità massima all’interno del gioco, porta per sfide di livello superiore.
Inizia così la nuova carriera di Sunraku, da cacciatore di giochi orrendi, a leggenda sulla bocca di tutti nella community di Shangri-la Frontier, il gioco divino.
Si capisce immediatamente dalla sinossi l’equilibrio che dicevo prima tra il riprendere le “formule” tipiche del genere (il mondo virtuale/reale fantasy in cui un “normale” diviene eroe leggendario, le suggestioni videoludiche, la dialettica tra l’io “attore” e l’io “controllore”) e il negarle (non è una realtà “alternativa” ma è solo un gioco, che più volte Rakuro abbandona per dedicarsi ad altri giochi). Questa dialettica apre nuove svolte che alleggeriscono e rinfrescano la narrazione, tenendola lontana dalle trappole abusate dell’eccessiva drammatizzazione che hanno appesantito il genere per renderlo più appetibile agli adolescenti in cerca di situazioni “estreme”.
Shangri-la Frontier non chiede al lettore la partecipazione ad una lotta per la sopravvivenza del protagonista che, sempre troppo comodamente, diventa lotta per la sopravvivenza del mondo. Si pone molto più onestamente come il racconto di una carriera agonistica-amatoriale: più simile quindi ad uno spokon (commedia sportiva) che ad un epic fantasy.
E’ quindi più fresco, leggero ed onesto nel farti ridere ed appassionare delle idiosincrasie del giovane protagonista e degli altri giocatori che incontra.
Ma non per questo meno epico.
Questo grazie ad un tratto di disegno ed una sceneggiatura potentemente shonen: dinamici e perfettamente in controllo del ritmo e della scansione del tempo, trasparenti e leggibilissimi nel dettagliare come le azioni convergano in un singolo momento esplosivo in cui i personaggi, tutti esteticamente gradevoli e ben delineati, mostrano la pasta di cui sono fatti ed i risultati dell’esperienza accumulata in anni di appassionata attività videoludica.
Coinvolgendo al punto che, quasi mi dimenticavo di menzionare un dettaglio tanto importante, il manga si permette di ostacolare l’immedesimazione con il protagonista facendo indossare all’avatar in gioco una maschera da pennuto che lo rende un curioso “mostro”.
Non credo di dover aggiungere molto altro: Shangri-la Frontier restituisce ad un sotto-genere abusato fino ad essere diventato barzelletta di sè stesso la dimensione avventurosa e leggera delle origini, riportando a “funzione narrativa” giustificata ciascuno di quegli aspetti che troppi epigoni scadenti trattavano come stuccature e decorazioni.
Allontanando per fortuna ancora un po’ lo spettro dell’oblio che spesso tocca alle idee spremute all’eccesso.