Tex è il primo eroe bonelliano che ricordo di aver sfogliato: mio nonno, prima ancora che iniziassi le scuole elementari, cercava di insegnarmi a leggere proprio sugli albi di Tex, l’unico fumetto che gli abbia mai visto in mano (anni dopo, quando sono riuscito a completare la collezione di Zagor, non ne ha mai aperto neanche uno…). E devo dire che nei primi anni Settanta con il ranger si andava sul sicuro: G.L. Bonelli era all’apice della sua vena creativa e Galep era affiancato da disegnatori del calibro di Letteri, Ticci e Nicolò… Ho sempre pensato – a posteriori – che il numero 100 abbia segnato una sorta di spartiacque: terminata, pochi mesi prima, la ristampa degli albi originariamente pubblicati nel formato a striscia, G.L. era finalmente libero di dispiegare le sue storie con maggior respiro, spesso e volentieri nell’arco di tre albi.
Fu l’inizio di un periodo davvero esaltante per i lettori texiani, con un capolavoro dopo l’altro: El Morisco, Il giuramento, Chinatown, Tra due bandiere, Sulle piste del Nord, Il figlio di Mefisto, Diablero, Il ritorno di Montales, La cella della morte, Terra promessa, Una campana per Lucero… e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Ma se dovessi indicare un unico titolo, non avrei dubbi: sarebbe I prigionieri del deserto, cioè l’avventura pubblicata tra maggio e luglio 1972 negli albi dal 139 al 141, conosciuta dai più con il titolo del n° 140 – Arizona.
I motivi per cui questa storia è indimenticabile per molti lettori texiani sono spiegati benissimo nella scheda di Michela Feltrin che ho recuperato per la nostra rubrica uBC Story: “questa storia parla dei quattro pards e del vincolo che li lega come un laccio adamantino“. Una storia in cui si respira l’Avventura con la A maiuscola, pur se all’interno di una trama senza elementi soprannaturali (come invece succedeva nelle storie con protagonisti Mefisto o El Morisco), perfino lineare e senza sussulti nel suo svolgimento – nessun lettore può dubitare, neanche per un istante, della riuscita del piano di Tex e dei quattro pards – ma che ci mostra l’universo texiano e soprattutto la prosa di G.L. Bonelli al top: nei battibecchi tra i due Kit, negli scambi di vedute con il dottore di Claypool e in alcune didascalie e scelte di sceneggiatura che, in mano ad altri, potrebbero sembrare pretenziose o comunque stonate rispetto al contesto. Valga per tutte la scena in cui “…i quattro pards, novelli cavalieri dell’Apocalisse…” vengono rappresentati come esili silhouette, appena accennate eppure riconoscibilissime, sullo sfondo di un paesaggio spettrale e desolato, sovrastate dalla rappresentazione classica della morte con tanto di falce: raccontata così, potrebbe sembrare una scena banale se non addirittura pacchiana. E invece l’effetto è magistrale e rende perfettamente la personificazione tra i quattro pards e la giustizia / vendetta inesorabile che sta per scatenarsi sui desperados di Helltown.
Ma questi sono i motivi per cui qualunque lettore texiano ama questa storia, mentre invece vorrei spiegare i motivi per cui è la mia preferita – che sono essenzialmente due: Guglielmo Letteri e Tiger Jack.
Ho sempre amato i disegni di Letteri e la sua interpretazione dei quattro pards, nel solco della tradizione eppure al contempo distante da quella classica di Galep. Ho sempre amato la sua interpretazione del Morisco, che ha creato graficamente e poi disegnato “in esclusiva” per una quindicina d’anni (fino al 1983, quando l’iconico curandero viene disegnato da Galep nell’albo Tex contro Yama), come pure quella di Perry “Proteus” Drayton, altro fondamentale personaggio da lui creato graficamente. Ho sempre amato le sue ambientazioni “cittadine”, così distanti da quelle in cui si svolgono di solito le storie di Tex. E pochi albi prima di Arizona, Letteri si era letteralmente superato nella raffigurazione di Mitla e del Diablero, in una storia epica che vedeva anche la partecipazione del Morisco.
E tuttavia… tuttavia è proprio in Arizona, in questa storia – come dicevo prima – quasi “minimalista” rispetto ad altre, che il segno di Letteri mi sembra ancora più convincente, accurato, senza apparenti margini di miglioramento, perfettamente al servizio della storia senza per questo ridursi ad essere il veicolo della sceneggiatura bonelliana. I quattro pards sempre al massimo dell’espressività… La caratterizzazione impeccabile di Don Lopez o della “tigre” Rita… La faccia stralunata del dottore di Claypool quando Carson, per sbaglio, mette il pepe nel caffè… Va beh, si sarà capito ciò che voglio dire. Negli anni successivi, Letteri sfornerà ancora ottime storie (tra cui l’indimenticabile Il laccio nero) prima dell’inevitabile, fisiologico declino già percepibile nella storia-fiume nolittiana Gli Uomini Giaguaro: ma in Arizona è davvero all’apice della sua arte.
E poi c’è Tiger, il mio personaggio preferito da sempre, qui finalmente in primo piano. Erano state molte le storie in cui il fratello di sangue di Tex aveva il suo giusto rilievo – e nelle avventure “collettive” G.L. Bonelli aveva sempre trattato questo personaggio alla pari con gli altri: ma qui è diverso. È da lui, dalle sue doti di esperto cercatore di piste che parte la storia, verso una via di salvezza dal deserto infuocato. È dal suo crudele, ingiustificato pestaggio che nasce la sete di vendetta della “famiglia texiana” di cui Michela parlava impeccabilmente nella sua scheda. E le sue amarissime riflessioni, che riempiono l’intera pagina 99 del n° 139, sono un capolavoro della prosa di G.L. e dei disegni di Letteri. Certo, in séguito il convalescente Tiger deve farsi un pochino da parte, ma l’incipit della storia è così potente da restare impresso nella memoria e da rendere indimenticabile questa avventura, anzi – tanto per ripetermi – questa Avventura con la A maiuscola.
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