Di idee, vestiti, e flash sullo stage

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Ci sono soggetti semplici. Anzi, in realtà tutti i soggetti sono semplici, e si basano su quell’idea iniziale che prova a farsi spazio, coagularsi, estendersi, financo stiracchiarsi, per vestirsi di scena e diventare una storia.
Le idee sono ad un livello di astrazione che confina con il tanto discusso e citato inconscio collettivo, per cui non sono MAI originali, perché un’emanazione di esse è presente in ognuno di noi (con buona pace anche di Omero, dunque!).
Ci sono vestiti di scena che effettivamente vestono bene e sanno valorizzare l’idea iniziale, grazie alla capacità dell’abbigliatore. In genere, una buona idea anche se vestita male continua a comunicare il proprio valore intrinseco.
Ci sono soggetti che tendono a ripetersi più di altri, per tutta una serie di motivi su cui qui non vale la pena soffermarsi: abbigliatori diversi riescono ad allestire sfilate di gusto superiore, ma anche loro potrebbero fare poco senza l’apporto di chi è chiamato a curare la creazione pratica dello stage.
Un’idea buona ma vestita male può sempre rivelarsi capace di sfilare bene, perché stavolta è lo stage a valorizzarla.
Poi tutt’intorno ci sono gli astanti, che catturano con lo sguardo e le pellicole (anche se adesso si fa quasi tutto in digitale) le idee che sfilano e fanno a loro volta proprio quel modello, dando origine nuovamente alla giostra dell’immaginazione.

Gigi Simeoni si è confermato da tempo su Dylan come un eccellente abbigliatore, spesso capace di partire da buone idee iniziali. In questo caso il soggetto è già presente qui e nella serie, ma la caratura dell’autore si rivela fin dall’inizio, nonostante una apparente accelerazione sul finire della storia, con il chiaro intento di riannodare i fili di una vicenda che fino a quel momento si era presa (giustamente) tutto il suo tempo per raccontarsi al lettore, ma quasi senza fare i conti con il numero di pagine.

L’effettivo valore aggiunto di questa storia sta però nel comparto grafico, a cura di un Davide Furnò in stato di grazia, che dà qui l’impressione di pescare ogni vignetta dal buio per poi gettarsela alle spalle, invitandoci così a seguire una specie di percorso grafico illuminato che, in quanto tale, se ne frega della pagina e conferisce allo stage una sorta di effetto surround. Ne viene fuori la sensazione come di un montaggio ben riuscito di una pellicola, capace di alternare i diversi registri senza lasciare spazi vuoti, così che l’attenzione degli astanti non cala, e le idee si lasciano rapire compiaciute da occhi e flash.

E niente. Come già altre volte ribadito, un buon prodotto non necessità di sproloqui che ne decantino il valore intrinseco. Il DDCF si muove ormai da tempo su canali narrativi propri, dove nuovi Dylan (e anche nuovi Groucho, anzichenò!) vengono continuamente creati e distrutti, al solo scopo di mostrare che “altri” Dylan sono possibili, pur nella variabilità qualitativa che attiene a quanto prima detto. Anche le storie di 94 tavole presenti su questa testata ricercano in teoria un paradigma interpretativo che vada oltre il semplice abbellimento cromatico: a volte questo non riesce ad emergere, ma in questo caso fortunatamente sì.

Verrebbe oziosamente da chiedersi cosa significhi in realtà il termine “sperimentazione”, quando applicato qui e quando invece applicato sulla serie regolare (dato che anche lì alcune teste sono saltate per far fronte al cosiddetto nuovo), ma appunto si rischia la deriva da bar (magari senza neanche le capacità di saper leggere e dare corpo alle vibrazioni che si nascondono tra sottobicchieri, posaceneri, e stantìe carte da parati), e allora stop.

Una nota stonata: Bloch soprintendente di Scotland Yard. Va bene sperimentare, ma almeno vogliamo metterci d’accordo su quali e quante continuity questi Dylan devono seguire? Ma pure si è disposti a passarci sopra, quando si legge e riconosce la forza dietro didascalie che ci dicono: “Mi chiamo Dylan Dog, vivo a Londra. Sono un indagatore dell’incubo, e sono pagato per occuparmi delle vostre paure”. 

Ci sono idee semplici. E c’è chi riesce a dare loro IL Carisma. In questa storia, in quella didascalia, nella visuale che si allontana, lo si può vedere nella sua forma più compiuta. E scusate se è poco.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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