La carrellata sulle letture delle vacanze 2018 è venuta talmente lunga che, per comodità, ho deciso di spezzarla in due.
La prima parte la trovate qui.
Senzombra – Michele Monteleone, Marco Matrone
In un mondo parecchio simile al nostro tranne che per una piccola “deviazione” un “normale liceale giapponese anglofono” non va a scuola ma combatte mostri appartenenti ai più diversi folklore. Tristan è forte, preparato, determinato e, sostanzialmente, “non gliene può fregare di meno” di qualsivoglia obiettivo o ideale che non sia colmare la sua “quota” di guadagno e così riscattare la sua ombra e poter esprimere un unico desiderio. Questo almeno fino a che non incontra Rita, un’altra cacciatrice che su consiglio di Yaman, il “collezionista” che ha conferito ad entrambi i poteri in cambio dell’ombra e della promessa di ricompensa, cerca la sua alleanza per dare la caccia ad un misterioso mostro dalle fattezze umane. Un mostro molto forte, forte quanto un Senzombra.
Eh, niente, lettori esperti avranno cominciato a farsi un’idea di dove si va a parare e, spiace dirlo, avranno azzeccato al 90%. Non ci sono modi per dirlo in maniera gentile, Senzombra, edito da Bao nella collana per giovani “Babao” assomiglia pure troppo ad una campagna standard di un RPG di ambientazione modern fantasy. Il fatto che poi i due protagonisti, adolescenti di un imprecisato paese anglofono (dati i nomi) dalla imprecisata cultura e caratteristiche, affrontino praticamente ogni sfida con l’atteggiamento da bulletti e smitragliando one-liner e battute “cool” con una frequenza che mi ha fatto ricordare una parodia dell’Uomo Ragno che lessi anni fa su Comix (o era Totem Comics?) non aiuta certo l’epica.
La giustificazione che sia un prodotto destinato ad un pubblico giovane conta fino ad un certo punto, anzi, si potrebbe trasformare in una aggravante nel momento in cui tale pubblico può inciampare in un My Hero Academia a caso e scoprire che altrove, oltre ad immergere i propri eroi in un tessuto sociale “autoctono” che ne definisca fortemente l’identità, sono molto attenti ad equilibrare dramma e commedia e non rischiare di sconfinare in farsa.
Detto questo, non tutto è negativo: dall’opera dei due autori emerge molta convinzione e molta energia, tanto da far pensare che con un aggiustamento di tiro anche minimo o sottraendo, o schiacciando l’acceleratore fino a velocità smodata, un nuovo tentativo potrebbe essere tutt’altro che dimenticabile.
Pistouvi – Merwan, Gatignol
Gli estimatori del maestro Hayao Miyazaki hanno ben presente quel momento in cui in ogni suo film ti trovi ad ammirare semplicemente quello che vedi perchè non capisci minimamente quello che accade, quello che i personaggi stanno facendo, quello che stanno dicendo.
Spesso questo dipende dal fatto che si tratta di un momento narrato non per un pubblico generico ma comprensibile solo ai compatrioti del maestro, magari ad un nucleo elitario di conoscitori di antiche tradizioni o persino al solo Miyazaki, che per un momento si concede il lusso di parlare a sé stesso di qualche cosa che doveva per forza dirsi, da molto tempo.
Ecco, leggendo Pistouvi edito da Tunuè mi sono sentito esattamente così… ma per un intero volume.
Ho ammirato la grazia ed il surrealismo dei disegni a china e mezzi toni di Bertrand Gatignol e spalancato la bocca di fronte a come ha reso le intuizioni oniriche della sceneggiatura di Merwan Chabane: dai disturbanti volatili che possono mutare gli altri esseri in volatili solo con il loro chiacchiericcio indecifrabile, al gigantesco Trattore, titanico contadino/macchina grezzo eppure sensibile, terrificante eppure gentile, dedito furiosamente a regolarizzare il terreno tutt’intorno pur senza trarne nessun piacere, innamorato senza speranza ma forse ricambiato dalla bella ed incontaminata Vento. E poi i due protagonisti: il volpino antropomorfo Pistouvi e la bambina Jeanne, che vivono in mezzo al nulla nella casa sull’albero.
E già il fatto che i protagonisti vengano per ultimi potrebbe far capire quello che intendevo: ciò che fanno, ciò che gli capita è incomprensibile, casuale, caotico. Se non fossi un cialtrone magari troverei in questa narrazione surrealista e sconnessa echi della nouvelle vague e di Moebius (protip: quando si parla di fumetto francese è facile impressionare il lettore riconducendolo a Moebius se incomprensibile, a Hergè se avventuroso e a Goscinny se fa ridere) (secondo protip: difficilmente il lettore ci casca, se ci si è autodefiniti “cialtroni” ad inizio del paragrafo).
Il succo del discorso è che probabilmente ho letto una arguta e appassionata metafora sulla crescita e la fine dell’infanzia.
Ma non l’ho capita e tutto quello che resta sono dei bei disegni.
Sospeso – Giorgio Salati, Armin Barducci
Prima di parlare di Sospeso ho guardato se trovavo dichiarazioni o profili dei due autori che raccontassero di un trauma da bullismo subito in prima persona o di un amico che aveva avuto la vita rovinata, o peggio, dalla piaga odiosa del bullismo.
Non sono un grande ricercatore ma non ho trovato nulla, per cui premetto che se per caso fosse invece stato così probabilmente mi coprirò di vergogna, ma devo chiedere: “perchè?”.
Perchè questo fumetto che parla sì del bullismo ma effettivamente fa solo quello? Freddamente, senza partecipazione, senza discussione, senza giudizi e, sopratutto, senza speranza. Come un articolo di giornale, come la testimonianza di uno psicologo ad un convegno, come il tema imposto da un docente abbastanza privo di fantasia ad un ragazzo abbastanza bravo a svolgerlo.
Non si poteva fare di più? Non si DOVEVA fare di più?
La costruzione della trama e delle situazioni ha un ritmo accurato e professionale ed i disegni, debitori dello stile “out” degli anni ’70 sono particolarmente adatti a sottolineare gli aspetti squallidi della vicenda. Ma che senso ha avere a disposizione un medium illimitato come il fumetto, nonostante la sua “povertà”, anzi proprio per quella, superiore per capacità immaginifica quasi ad ogni altro medium, e poi costringerlo in una sorta di “quasi cronaca giudiziaria”. Ma con i superpoteri.
Perchè c’è poi anche questa ennesima incongruenza: il fumetto può essere fredda cronaca ed appassionata denuncia e i coraggiosi delle Edizioni Becco Giallo lo hanno dimostrato con coerenza e continuità. Ma se in un contesto di feroce realismo metti i superpoteri, veri o solo immaginati a causa del sovrapporsi di traumi e umiliazioni, boh… era lecito aspettarsi qualcosa di più.
O magari non è lecito e sono solo io, lettore pretenzioso e con le mie personalissime idee a chiedermi perché un autore debba confermare ogni singolo peggiore sviluppo. Perchè la ragazzina precoce della classe, non bella ma già formosa, che si fa fare i compiti dallo sfigato protagonista deve alla resa dei conti per forza confermarsi la, perdonate il francese, troietta stereotipa che sembrava fosse? Perchè il bullo non ha dall’inizio alla fine un momento di incertezza o debolezza? Perchè il, chiamiamolo così, protagonista è a tal punto affogato nella mediocrità della prima adolescenza (diciamocelo, periodo di cui ben pochi di noi vanno fieri) da rendere semplicemente naturale l’esito delle cose?
Perché tutto è così banalmente verista da non lasciare qualsivoglia spiraglio all’interpretazione, all’incoraggiamento o al solo accendere una legittima e salutare rabbia verso la banale ingiustizia?
Io sono avverso ai Messaggi (“M” rigorosamente maiuscola) e agli “spiegoni”, che facilitano il lavoro dell’autore dandogli la comoda scappatoia di una moralina valida per tutte le stagioni. Ma anche il vedere tutta questa fatica profusa per dare al lettore una narrazione attentamente spogliata di qualsiasi senso che non sia l’ineluttabile ed inevitabile tragicità del banale irrita, e non poco.
La prossima volta, gentili autori e rispettabili edizioni Tunuè, prendetevi le vostre responsabilità di adulti e dite con chiare parole al vostro protagonista, ed ai ragazzi a cui parlate, che finire “Sospeso” è la pura conseguenza del non aver stretto i denti e fatto una scelta: menare, urlare o chiedere aiuto. Sono d’accordo che sarà meno elegante di lasciar trovare al lettore il suo significato. E’ quasi certo che farete la figura dei vecchi tromboni e di quelli che “la fanno facile”.
Ma se, appunto, siamo diventati adulti è perché abbiamo già fatto i conti con il fatto che, tanto, il reale è lì, banale e tardo come un bulletto, e ogni momento perso ad affrontarlo lo rende solo più cattivo.
E il dovere di dirlo lo abbiamo.