
Questa è la storia di un autore che ha ammirato a tal punto un altro autore da esserne quasi indistinguibile.
Questa è la storia di un autore che ha cercato di allontanare da sé l’influenza di un altro autore e nel fallire ha comunque prodotto una opera pregevole.
Questa è una storia che supera quel confine impercettibile tra “copiare” e “fare proprio”.
Questa è la storia di Fung Chin Pang e di C.A.T. , l’opera disegnata con “la mano” di Hiroaki Samura.
Non voglio però fare torto ad opera ed autore parlando solo di questa, quasi inquietante, “assunzione di personalità artistica”, per cui vorrei raccontarvi di C.A.T. .
C.A.T., inglese per “gatto” e acronimo di “Confidential Assassination Troop” è il classico progetto “lavori sporchi” che ogni superpotenza sembra aver prima o poi messo in cantiere (e portato a termine). C.AT. è una persona, ovvero l’unica superstite e compimento del progetto: una giovanissima assassina prezzolata dalle capacità sovrumane, impiegata per portare a termine quelle missioni che hanno un grado di difficoltà un pelino superiore a “impossibile”.
Purtroppo, mentre è in territorio russo e sta portando a termine l’ennesima missione che nessuno potrebbe portare a termine succede l’imprevisto: non solo il suo bersaglio è una unità cinese con lo stesso curriculum ma qualcuno ha imbeccato i Servizi Segreti russi, i quali hanno inviato i loro “specialisti dell’impossibile” a mettere le mani sui “ficcanaso”. Quello che segue lo si può descrivere nelle parole del grande saggio: “un bel casino”.

Giunta a Mosca ferita, aggredita ancora dai nemici e prossima a morire come il gatto randagio che è stata nella sua infanzia, viene raccolta da un giovane pittore squattrinato e si trova d’improvviso strappata alla scacchiera di pedoni super-potenziati, alfieri nucleari e torri tecnologiche.
Il problema è che nel frattempo lo scacchista che ha dato inizio alla partita, facendo muovere con abilità tutti gli altri giocatori come voleva lui, sta andando verso un “matto” finale che sembra definitivo.
Pubblicato nel 2007 da Free Books editore che, sarò onesto, non riesco a capire se ancora sia in attività, C.A.T. è uno di quei manga che fa sempre piacere riavere sotto le mani. Sicuramente merito di una solida sceneggiatura che, pur sembrando il “pilot” di una serie spionistica (in due volumi infatti la storia non pare completarsi), tiene il lettore ben saldato alle pagine. I personaggi sono infatti carismatici e carichi di personalità, tanto la protagonista, una macchina omicida con una feroce determinazione a mantenere la sua individualità, quanto il prodigioso direttore della CIA Gran Alvas burattinaio capace di scendere a recitare con i burattini senza sfigurare, quanto Hao Long lo “specialista” cinese a cui C.A.T. ha ucciso la sorella durante la missione disastrosa.
Lo sono nel modo di agire e nel modo di esprimersi: fanno quello che devono con razionalità ed efficienza, dicono quello che hanno da dire e ascoltano, sempre, quello che gli altri dicono: una continua partita tra giocatori intelligenti di cui il lettore è spettatore privilegiato.

Di tale sceneggiatura, il tratto è compagno perfetto, ma ancora ne rimando di un paragrafo la trattazione per un po’ di contestualizzazione.
I lettori di lungo corso ricorderanno quando, a 10 anni circa dalla “ricomparsa” del manga in Italia ad opera della defunta e mai troppo compianta Granata Press, cominciarono a proliferare i “manga tarocchi”: i “Manhwa” coreani e poi i “Manhua” cinesi.
Almeno per quanto riguarda gli inizi, il ricordo raramente è positivo: copie grossolane che riproponevano senza soluzione di continuità i “leit-motiv” del manga senza comprenderli appieno, scimiottando gli autori più famosi della dirompente “New Wave” (Akira Toriyama, Masaomi Kanzaki, Kya Asamiya) o i maestri più affermati (Tsukasa Hojo, Tetsuo Hara).
La prima imbarcata fu una pletora di opere senza né capo né coda, infarcite di fan-service ancora più castrato di quello degli originali (infatti la censura coreana e, soprattutto, cinese era ancora più feroce di quella giapponese); insomma, tutto il danno e doppia beffa.
Poi evidentemente gli editori italiani fiutarono l’andazzo, complice anche una generazione di editors (dai Kappa Boys a Michele Gelli a Tito Faraci solo per citarne alcuni) tutt’altro che disposta a fare (troppi) compromessi sulla qualità e ai Man*a venne messo un filtro, cominciando ad alzare l’asticella delle pretese.
C.A.T. viene pubblicato esattamente al termine di questa abbuffata di junk food ed è uno degli indizi di questo cambiamento.
La sceneggiatura, come detto, ma anche il tratto: per stessa ammissione del giovane autore cinese, ispirato al tratto di Hiroaki Samura, autore di 10 anni più vecchio e conosciuto in Italia soprattutto per L’Immortale .
Come detto, più di ispirazione, più di scopiazzatura, possiamo parlare di “appropriazione”: tavola dopo tavola la mano che disegna sembra essere la stessa del citato “L’immortale” e del più recente “Die Wergelder”. Non si tratta solo una questione di tratteggio, ma di costruzione della tavola e posture privilegiate dei protagonisti, tanto da mettere persino in dubbio l’assunto che il tratto di un disegnatore sia la sua “impronta digitale”.
Il risultato è quanto mai appropriato. Il tratto carico di “imperfezioni volute”, dalla grana della matita alla incostanza del pennello, fa quello che nessun rapidograph o retino potrebbe mai fare: rende “indistinta” ogni azione, sporca ogni conclusione e sfuma ogni conseguenza.
Esattamente come ci si aspetta da una spy-story con personaggi “veri”.
Arrivo alla conclusione, dopo aver reso chiaro oltre ogni dubbio che questo manga è sempre stato ai miei occhi una piccola, imperfetta, gemma: qualcuno ha detto che una copia indistinguibile dall’originale detiene per ciò solo un valore ed un potere forse persino superiore.
Potrebbe essere questo il caso.