Presentata a Lucca Comics and Games 2016, Monolith è una graphic novel Bonelli in due parti, scritta da Roberto Recchioni assieme a Mauro Uzzeo per i disegni di LRNZ (al secolo Lorenzo Ceccotti).
Il tratto distintivo dell’opera è che il soggetto iniziale è stato contemporaneamente sviluppato per due differenti media, ossia fumetto e cinema. A tale proposito, per il 12 agosto è prevista l’uscita del film nelle sale italiane.
Ciò arricchisce oltremodo la dimensione del fenomeno di “media crossing” inizialmente analizzata per il progetto Radium , lasciando addirittura intravedere più di una deriva filosofica legata al concetto di “opera originale” che in questo caso viene come snaturato dall’idea portante, in quanto declinato in due accezioni non prive di differenze, ma neanche di similitudini. Un esempio su tutti è quello di caratterizzare anche la graphic novel con un respiro cinematografico pubblicandola in due volumi, denominati “primo tempo” e “secondo tempo”.
Più prosaicamente, l’impatto grafico tra i due prodotti (vedi ad esempio il poster del film e le cover della graphic novel) è conformato così da invitare il fruitore ad un’esperienza che – ovviamente, nella logica di marketing – includa entrambi gli aspetti in cui si suddivide la medesima operazione commerciale.
Rimaniamo però su un unico percorso.
Alla base dell’opera vi è il tòpos classico della narrazione epica: l’avventura dell’eroe (eroina in questo caso, e nemmeno priva di macchie né di paure) che deve sconfiggere il Babau, affrontando al contempo i propri demoni interiori.
La rincorsa di un tono epico è un elemento ricorrente nella produzione di Recchioni, applicata ad esempio con particolare vigore nella sua mini centrata sul personaggio di David Murphy .
L’elemento epico (dal greco épos = parola) è imprescindibile in tutte le storie raccontate dall’uomo: nel caso di David, la sua era un’epopea americano-confusionaria che vedeva nell’ironia da disadattato del protagonista un felice tratto caratterizzante.
Non tutte le storie hanno però la pretesa di enfiare il pathos della vicenda per perseguire una dimensione di maestosità, vuoi nel tono, vuoi nelle ambientazioni, vuoi nel messaggio da comunicare. Monolith si propone di fare proprio questo, affidandosi soprattutto ad un comparto grafico iperrealista che ricorda i lavori di Miran Kim, Alex Ross o, più di recente, Makoto Shinkai, e che vira potentemente sull’onirico, concedendosi finanche di sfumare nello psichedelico.
La storia porta infatti continuamente in scena il conflitto interiore della protagonista alle prese con un problema più grande di lei (e che anche precede l’elemento narrativo centrale); soprattutto, nella vicenda si instillano artatamente elementi di epicità con il solo risultato di dilatare i tempi e offrire al lettore un lato oscuro contro il quale la protagonista combatte, ma sulla cui effettiva funzionalità in termini diegetici rimangono molti dubbi. In tutto questo si innesta poi, in maniera smaccatamente telefonata (termine utilizzato non a caso), il trigger narrativo che porterà alla soluzione del problema.
A fine corsa, quello che pare immediato è che il tutto poggia su un soggetto abbastanza debole. La cosa non è negativa in sé: quante opere partono da soggetti deboli? Anche i film di Charlie Kaufman, in fin dei conti, hanno soggetti relativamente semplici. La scrittura di Recchioni e Uzzeo tende però a gonfiare in maniera ipertrofica lo scarno soggetto con steroidi narrativi che, come tutti gli steroidi, dopano ma non migliorano.
Anche il comparto grafico sembra sia stato pensato a questo scopo: l’arte di LRNZ non si discute e asserve il testo in forma egregia, da un lato con tavole dal sapore extra-large capaci di trasmettere un senso di smarrimento, grazie anche all’assenza di contorni; dall’altro mostrando l’abilità di alternare più stili senza per questo abbassare l’asticella del risultato (il tono psichedelico di alcune tavole viene rafforzato da un tratto che quasi strizza l’occhio a Hergé). Ne consegue che la lettura fluisce in maniera liquida, di pagina in pagina, sulla scia di una costruzione delle tavole davvero “cinematografica” ed efficace – tra l’altro, è opera dell’artista anche il comparto scenografico del film. Quello che lascia insoddisfatti perciò è che, in un modo o nell’altro, viene naturale pensare che tavole del genere potessero avere solo quel formato, e non uno minore, e questo è la conferma di un lavoro di doping (e marketing) che il fruitore pur riconosce ma che, per come costruito, si convince che sia l’unico modo per far funzionare perfettamente il prodotto finale.
La debolezza di Monolith è dunque non il partire da un soggetto debole, ma il volerlo giustificare giocando con maestria sulla sceneggiatura (intesa appunto come insieme di testo, inquadrature e generale approccio grafico alla materia narrativa). Tutto questo, pur all’interno dell’interessante e lodevole cornice del media crossing (i due processi, film e fumetto, si muovono in contemporanea, più che essere l’uno il successivo adattamento dell’altro), alla fine mostra comunque la corda, e non risulta abbastanza per rimanerne soddisfatti.